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Riproposto nella XII edizione nelle librerie, “Una stanza piena di gente” di Daniel Keyes è ormai un classico della letteratura non-fiction psicologica da leggere sia per la qualità della scrittura che per il tema trattato: il magistrale resoconto in presa diretta della storia personale e giudiziaria di un uomo con 24 personalità che tenne all’erta gli americani negli anni ’80 dello scorso secolo. Uscito nel 1981, ancora oggi rimane un testo che ci interroga non tanto sulla cosiddetta malattia mentale – nel caso specifico di quello che oggi è classificato come disturbo dissociativo dell’identità – ma su cosa può contenere la nostra mente, sui modi in cui può funzionare, sui rapporti tra il disturbo mentale e la società o, meglio ancora, sulle nostre risposte personali a ciò che consideriamo lontano da noi. E che lontano non è. La narrazione tesa e senza cali di tensione di Keyes lascia trasparire, tra le tante, l’idea della molteplicità che alberga anche nella nostra mente e di come ci muoviamo, forse, sul filo di una stessa linea che va da ciò che riteniamo e sentiamo come “normale” all’altro capo considerato come follia. Oggetti interni, parafrasando la psicoanalisi, che possono parlarsi e costituire la nostra identità “fusa” e sfaccettata oppure non riuscire a coesistere contemporaneamente e prendere ognuna il comando delle operazioni del nostro vivere escludendo le altre. Il racconto si ferma agli inizi degli anni ’80, con Billy Milligan ancora internato e alle prese con una vicenza giudiziaria molto complessa e apparentemente non risolta. Ma nel 1991, dopo altri due trasferimenti in manicomio, fu dichiarato guarito dalla patologia mentale da cui era affetto e non più sottoposto a cure psichiatriche. Si trasferì quindi in California dove fondò una casa cinematografica la Stormy Life Productions. Morì, all’età di 59 anni, nel dicembre del 2014 a seguito di un sarcoma molto aggressivo.