Guardando il bellissimo lavoro di due giovani fotografi, Yves Marchand e Romain Meffre, su Detroit, da torinese sono stato percorso da un brivido. Detroit è stata la culla della produzione automobilistica americana, capitale industriale a livello mondiale e sogno per una popolazione che negli anni ’50 diventò la quarta città americana. In circa cinquat’anni ha perso metà della popolazione ed oggi si presenta in molte sue parti come un fantasma, in decomposizione, straordinariamente mummificata. In pratica ciò che la portò allo splendore è oggi causa della sua incredibile decadenza: l’industria automobilistica. Il brivido, per chi vive in una città che è stata invece la culla dell’industria automobilistica italiana ed europea, che ha vissuto importanti fenomeni migratori vedendo la propria popolazione triplicare in pochi anni e poi gradualmente contrarsi è d’obbligo. Torino resiste, certamente, ma ciò che vediamo rappresentato di Detroit è una possibilità da non dimenticare, da non trascurare. Una possibilità da evitare, ma sempre presente e che deve ricevere una risposta diversa dai fasti del passato, attraverso una nuova idea di città e di produzione che non potrà essere l’ansimante industria automobilistica così come l’abbiamo conosciuta. A Torino resiste comunque una grande capacità operaria ed industriale che non può comunque essere perduta ma deve ritrovare in altri tipi di produzione sostenibili, non delocalizzabili, verdi la propria vocazione senza inseguire le piccole voglie inconcludenti di un capitalismo famigliare piccolo ed in po’ cialtrone che cerca nei soldi dello Stato l’ultimo salvagente possibile. Se Detroit può rappresentarsi come una possibilità di Torino, Torino deve reagire anche attraverso una classe politica diversa che punta su produzioni diverse e reinventarsi in maniera anche creativa senza dimenticare che qui esistono mani – quelle degli operai – che sanno ancora fare bene le cose e lasciando perdere le chimere delle tasche sdrucite di falsi imprenditori da terzo polo.
Intanto l’invito è guardare le immagini pubblicate da Il Post e Because the light
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Giorgio Viglino
Figurati se non condivido, però io sono stato a Detroit una decina d’anni fa e mi domando ancora adesso come mi sia venuto in mente allora di fare fra tantissime scelte americane, appunto la scelta di tornare in quella iinvivibile città. L’avevo scoperta pprima ancora ma perchè paracadutato da una partita dei mondiali di calcio 1996 e diciamo che non ne ero rimasto colpito, se non per il monumento a Mohamed Alì (Cassius Clay), Tornando ho trovato le tracce di una crisi che solo le città minerarie dell’ovest possono offrire ma a distanza di cent’anni o più. Lì no in quell’enorme triangolo di 200km per 150 (una volta e mezza Los Angeles), c’era tutto il degrado della nostra civiltà Certo sopravviveva downtown, le aree residenziali a nord. Forse adesso la situazione è migliorata, avranno raso al suolo gli scheletri più impresentabili. Per fortuna torino è meno 10×10 km, abbiamo una cultura secolare che ci difende e che ci ricorda che dopo un impero che crolla si possono ricostruire città e signorie, si può trovare degli artisti che ti fanno rinascere, persino un empito di patriottismo per far rinascere una porzioncina unita di quell’impero. Giusto: 150 fa. Ciao , giorgio
Posted at maggio 6, 2011 on 6:44pm.
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Dorino Piras at http://www.dorinopiras.it
Grazie Giorgio.
Posted at maggio 6, 2011 on 10:06pm.