Dorino Piras

La Salute, l'Ambiente, il Lavoro

Jim Yong Kim candidato da Obama per la Banca Mondiale

Jim Yong Kim è stato scelto da Barack Obama come candidato per la Presidenza della Banca Mondiale. Riporto la nota perchè Yong Kim è internazionalmente conosciuto come uno dei più grandi esperti medici nella lotta di flagelli mondiali come l’Aids e la tubercolosi. La scelta è caduta su di lui tenendo conto delle caratteristiche che la Banca Mondiale ha indicato come importanti nel profilo dei candidati e cioè ” dovrà dimostrare di avere qualità di “leadership”, “esperienza nella gestione di grandi organizzazioni internazionali”, “imparzialità”, “ottime doti comunicative”, “familiarità con il settore pubblico”. Ed io faccio il tifo per lui…

Obama 2012: La strada che abbiamo percorso

Un consiglio a Fassino firmato Obama.

Sulle strade degli Stati Uniti entro il 2015 circa 600.000 auto avranno una propulsione “verde”: ibride, elettriche o alimentate con carburanti verdi. Saranno i mezzi dell’amministrazione Usa che, come ufficializzato da Barack Obama, sostituiranno i veicoli di proprietà federale alimentati a benzina e gasolio. Il provvedimento “Secure Energy Future” potrebbe poi essere anche esteso alle aziende private che formano partnership con l’amministrazione pubblica. Nel linguaggio degli amministratori dell’ambiente è un tassello della più grande famiglia del “Green Procurement” che in sostanza significa che le amministrazioni pubbliche si impegnano a fare “acquisti verdi” usando per le loro attività di diverso genere prodotti con basso impatto ambientale. (altro…)

Rahm Emanuel nuovo sindaco di Chicago

Rahm Emanuel è il nuovo sindaco democratico di Chicago. L’uomo chiave dell’elezione di Barack Obama a Presidente degli Stati Uniti ha infatti sbancato nelle elezioni della capitale dell’Illinois raggiungendo la vittoria al primo turno con il 55% dei voti. Emanuel ha pianificato la sua vittoria portando il fedele staff che ha costruito la vittoria di Obama e ssfoderando le sue armi migliori sia nella raccolta di fondi – 13 milioni di $- sia nel battere il territorio in maniera scientifica ed occupando sapientemente gli spazi informativi con l’ormai consolidata strategia attraverso il web. (altro…)

Bernard Henri-Lèvy: ma Obama resta una grande speranza

(via Corriere della Sera)

Così dunque Obama ha perso. Come previsto, sebbene in maniera meno netta di quanto pronosticato e soprattutto di quanto speravano gli illuminati dei Tea Party, gli elettori americani gli hanno inflitto un voto-sanzione. Del resto, egli stesso l’ha immediatamente riconosciuto, con una semplicità, un’eleganza, un fair play degni di ammirazione.

Detto questo, la campagna per le elezioni di medio termine è finita. Ci sono argomenti che, finché la battaglia impazzava, forse facevano parte del gioco (per quanto…) ma, ora che si è conclusa e si torna alle cose serie, ci piacerebbe non sentire più.

Bisognerebbe smettere di dire, per esempio, che la politica economica di Obama ha «creato disoccupazione», mentre tutti gli studi scrupolosi (a cominciare da quello di fine agosto dei filo-repubblicani Mark Zandi e Alan Blinder) riconoscono che ha creato circa tre milioni di nuovi posti di lavoro e che il tasso di disoccupazione, senza di essa, si situerebbe fra l’11 e il 16%. Bisognerebbe smettere di raccontare che l’economia mondiale, con Obama e per sua colpa, stava correndo verso il fallimento, allorché è fortemente probabile (come scrive François David sul Figaro del 1˚novembre) che abbia cominciato a risollevarsi sotto l’impulso, certo, dei «Paesi emergenti», ma con l’appoggio — perché non ammetterlo? — di una politica monetaria statunitense, l’unica veramente possibile in un Paese i cui consumatori continuano a pesare, da soli, il 18% del Pil mondiale.

In ogni modo, non si può ritenere un presidente eletto due anni fa responsabile del cattivo stato dell’America, della lenta distruzione delle infrastrutture, del declino del sistema educativo o della produttività, come fa Arianna Huffington nel suo libro ( Third World America, Crown Publishing Group), poiché tale rovina è cominciata, lo dice bene lei stessa, quando Obama non era ancora entrato in politica. Non si può rimproverargli di agire al tempo stesso troppo velocemente e non abbastanza. Di preoccuparsi troppo dei consensi, di fare troppi compromessi con gli avversari, e di volersi imporre con la forza. Non ci si può impietosire sul suo 49% di opinioni favorevoli nei sondaggi, mentre altri — per esempio Sarkozy — sono fermi al 29%. Né sul «disincanto» dei suoi sostenitori, visto che due autori satirici — Jon Stewart e Stephen Colbert — sono riusciti, nelle ultime ore della campagna, a far manifestare sul National Mall 150.000 persone che gli erano furiosamente favorevoli. Non si può continuare a ripetere che un sisma minaccia Washington, quando a questo presidente accade quel che successe, a metà mandato, a tanti altri presidenti prima di lui: senza risalire fino a Eisenhower, Nixon o Johnson, Obama è più o meno nella stessa situazione di Reagan nel 1982, di Clinton nel 1994, di Bush nel 2006. Non è la fine del mondo.

Bisogna smettere anche di farfugliare che Obama «non ha mantenuto le promesse». Di quali promesse si parla? Per quanto riguarda il sistema sanitario che, prima di lui, condannava 46 milioni di poveri alla mancanza di cure e, quindi, a una morte precoce, egli ha avviato la più grande rivoluzione che il Paese abbia conosciuto dall’epoca del movimento per i diritti civili: certo, bisogna portarla a termine, rimane cioè da votarne il bilancio. Ma su questo punto la palla è nel campo dei repubblicani e spetterà a loro dire se si comporteranno da sabotatori o da responsabili.

Quanto all’Iraq, ha mantenuto la parola, poiché il ritiro, fin da ora, è avviato e alla fine del 2011 non ci sarà più un soldato americano a Bagdad o a Bassora. Quanto al Medio Oriente, ha fatto il contrario rispetto ai suoi predecessori, che aspettavano gli ultimi mesi dell’ultimo anno del loro ultimo mandato per accorgersi del problema e impegnarsi in una corsa contro il tempo, il cui principale scopo era di ottenere, strappandolo coi denti, come un trofeo, un vago accordo raffazzonato che, beninteso, in realtà non veniva mai raggiunto: Barack Obama, invece, si è reso conto dell’urgenza, e della complessità, dell’impresa fin dal primo giorno del primo anno del suo primo mandato. Già questo non è così male.

Obama stop agevolazioni al lavoro fuori dagli USA

Barack Obama sta in queste ore intervenendo al Congresso Usa per porre fine alle agevolazioni fiscali che premiano alcune società americane con filiali all’estero e che incoraggiano la creazione di posti di lavoro in altri paesi. L’idea ha sollevato preoccupazioni anche tra alcuni parlamentari del partito del presidente. In discussione c’è una proposta di legge, ora in fase di stallo al Senato, che eliminerebbe alcuni crediti d’imposta e sconti  alle società statunitensi per operazioni all’estero.

“Non vi è alcuna ragione per cui il nostro codice fiscale deve attivamente ricompensarli per la creazione di posti di lavoro all’estero”, ha detto Obama nel suo settimanale discorso alla radio e su Internet del Sabato. “Invece, dovremmo usare le nostre tasse per premiare le aziende e le imprese che creano posti di lavoro all’interno dei nostri confini.”

Oltre all’opposizione repubblicana, il disegno di legge non è riuscito a ottenere il sostegno di alcuni democratici, tra cui il presidente della Commissione Finanze del Senato, il senatore Max Baucus, D-Mont che ha espresso la preoccupazione che il cambiamento avrebbe messo gli Stati Uniti in una situazione di svantaggio competitivo. La fine di queste disposizioni fiscali si è scontrato con l’opposizione di gruppi di imprese, tra cui la National Association of Manufacturers. Obama ha detto che non ha senso concedere agevolazioni fiscali alle aziende che conducono business a livello internazionale mentre le aziende di casa fanno fatica a causa del rimbalzo della crisi economica. Obama ha detto che vuole  rendere permanenti crediti d’imposta su ricerca e sviluppo e consentendo alle aziende l’anno prossimo di cancellare tutti i costi di nuove attrezzature.

(notizie da Huffington post)

Obama scuote Washington

Barack Obama all’attacco sulle misure anticrisi. Afferma che le attuali politiche sono state ritenute positive dal 95% degli economisti ma non sono ancora sufficienti. Quindi via ad una nuova scossa economica con abolizione delle agevolazioni fiscali per le classi ricche e abbassamento della pressione fiscale per le classi medie attraverso un’azione governativa da varare anche entro un mese. Con una sferzata al Senato Usa per una pronta approvazione degli sgravi fiscali per le piccole imprese. Tra le due perdite di popolarità, quella del Capo del Governo italiano e quella del Presidente degli Stati Uniti, la qualità è ben diversa…

Obama torna Obama

Obama ritorna Obama e lascia perdere i sondaggi contrari ed altri calcoli strettamente politici per riaffermare alcuni concetti forti che sono stati la giuda della sua campagna presidenziale. “Questa è l’America, qui la libertà è un principio incrollabile” In gioco per Obama c’è la separazione tra Stato e Chiesa. Gli Stati Uniti e il sogno americano sono anche questo: una nazione talmente forte da potersi permettere la riaffermazione dei principi dei Padri Fondatori senza badare al piccolo cabotaggio delle convenienze contingenti. Per Obama non vince il terrorismo islamico e non vincerà la semplice vendetta: a nessuno potrà essere negato il diritto di professare la propria fede.

Ma non solo Obama. Basterebbero le parole di Bloomberg, il sindaco di New York di origine ebraica, per capire cosa succede negli Usa: “con il no alla moschea tradiremmo i nostri valori e faremmo un piacere ai nostri nemici”. Ma Bloomberg ha imparato dalla sua vita una lezione fondamentale, proprio quando la sua famiglia fu costretta a servirsi di un prestanome cristiano per comprare la propria casa in una zona profondamente antisemita degli Stati Uniti stessi. Bloomberg ha più volte affermato come avendo vissuto sulla propria pelle lo staus di minoranza, non si sarebbe mai prestato a far vincere un’altra volta le forze della segregazione. Per questo Obama e Bloomberg probabilmente passeranno alla storia. Calderoli non credo.

Come comunica Obama: west wing week

Un uso certamente sapiente dei nuovi media e al passo con i tempi è uno dei mantra dell’amministrazione americana guidata da Barack Obama. Non poteva quindi mancare il canale youtube della casa bianca che aggiorna in una manciata di minuti sulle attività della Casa Bianca con uno stile sicuramente “alla mano” ma sapientemente diretto dallo staff di Obama. Il titolo, west wing week, si rifà al nome dell’ala della Casa Bianca in cui è ospitato lo studio Ovale presidenziale. Una comunicazione non ingessata, rapida ma puntuale su cosa succede al 1600 di Penn Av.

I figliocci di Obama: Milliband, Clegg, Cameron.

Comunque vada a finire, dopo gli Stati Uniti la Gran Bretagna mostra una capacità di rinnovamento della classe politica sicuramente impensabile nel nostro Paese. Quello che alla fine viene fuori è che oltre a Clegg, che è riuscito a far fruttare abilmente la sua posizione anche con un risultato deludente, Milliband riceve un sostanziale via libera come nuovo leader laburista. Clegg, Milliband, ma anche Cameron, diventano le nuove coordinate della politica inglese, un ricambio in tempo reale in condizioni di incertezza che in altri paesi avrebbero riportato in auge le vecchie volpi stagionate con la scusa, appunto, della difficoltà della situazione. Una Gran Bretagna che alla fine si scopre “cool” e si rinnova profondamente, a dispetto della superficiale patina di tradizione. Come se il mondo anglosassone continuasse a dare lezioni di leadership politica ad un Mediterraneo stagnante. Obama docet.