È sotto gli occhi di tutti la difficoltà che si vive a sinistra. Ma le uniche onde, a dire il vero un po’ anomale, che si registrano sono il tentativo dei partiti di rispondere alla desertificazione istituzionale rivedendo i meccanismi dello strumento-partito. Non è sufficiente. Almeno per la sinistra e per la sua storia. Perché storicamente un modo genuino di rispondere della sinistra è quello di riorganizzarsi partendo dalla propria gente. Non intendo addentrarmi nella discussione delle forme-partito (che non sono da abbandonare come categoria). Non tutti siamo chiamati a farli funzionare, ma tutti siamo chiamati a costituirne le idee, le pratiche. Da questo compito nessuno può dirsi esentato o non in grado di contribuire.
Che fare?
Credo sia necessario creare in ogni territorio una costituente delle idee, che per ogni settore – ambiente, sanità, economia e via discorrendo – riveda i dati a disposizione e avvii una discussione veramente libera ed aperta a tutti coloro che pensano che i valori della sinistra (libertà, solidarietà, uguaglianza…) possano ancora guidare lo sviluppo della nostra società. Una discussione aperta per toglierci le incrostazioni che in questi anni hanno reso opaco il nostro messaggio.
Una discussione vera, senza slogan, dove le affermazioni devono essere sostenute dai dati e le azioni da proporre siano veramente fattibili e non viaggino nei cieli più alti. Solo questo potrà riempire i contenitori di cui i tecnici di partito stanno misurando le spoglie, le rovine.
Perché ad esempio la questione ambientale non è solo fatta di rifiuti e di inceneritori, ma anche di meccanismi di carbon tax, di applicazione di leggi europee, di monitoraggi, di economia ambientale.
La proposta sarà quindi quella di una discussione da riportare tra la gente normale, senza retropensieri di appartenenza a questo o a quel gruppo.
Perché non c’è una semplice voglia di rivalsa, ma il bisogno di parlare di problemi semplici e complessi senza censure, senza pensare di essere o meno in linea con qualche residuale totem del passato.
Questo è l’impegno che da oggi mi sono prefisso, senza rete e reticenze, dicendo anche cose forse scomode e fuori dal nostro “coretto” a cui ci siamo costretti.
Perché, come diceva l’amato Gramsci, il nostro compito è provare e riprovare.
Leggendo però senza paraocchi la realtà vera, anche quando non ci piace, senza averne paura.
Un appello, dunque, a tutti coloro che hanno ancora voglia di misurare se stessi con i valori della sinistra. L’indirizzo lo conoscete.
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
Una tesi continua ad aggirarsi tra le pieghe della discussione sulle gestioni idriche: l’acqua sta diventando un bene scarso e quindi il miglior modo di ripartirla, di fare in modo che la sua distribuzione sia efficiente, è quello di affidarla alle leggi del mercato, lasciare cioè che la domanda e l’offerta regolino al meglio questo tipo di bene. Questo passaggio non è strano. L’economia notoriamente si occupa di ripartire fra usi alternativi risorse che soffrono di scarsità possedute dalla società. Beni ambientali come l’acqua non sono stati finora molto considerati dall’analisi economica perché ritenuti disponibili in quantità illimitate, non costituenti oggetto di scambio sul mercato, appunto in quanto ritenute illimitate e, pertanto, privi di prezzo. Ma il quadro cambia e finalmente anche questi beni possono entrare a pieno titolo nella contrattazione domanda/offerta che potrà determinarne un prezzo. Possiamo accettare questa nuova sistemazione del problema con le sue conseguenze? Sicuramente no. L’acqua è fondamentale per la vita e tocca all’umanità assicurarne la gestione collettiva. Servono uso, conservazione e protezione nel rispetto del diritto alla vita per tutti gli esseri umani e le altre specie viventi. L’acqua è un bene essenziale, da garantire a chiunque, indipendentemente dal reddito, in quanto parte della dotazione minima indispensabile di chi fa parte della comunità. Oltre allo stretto legame con un altro bene essenziale quale la salute. Ma anche tralasciando valori non meno importanti ai fini dell’uso delle risorse quali quelli etici, ambientali e sociali, proprio sul campo economico il sistema di mercato «fallisce» nei confronti delle risorse ambientali: esso non è in grado di funzionare e di determinare prezzi utili per ripartire le risorse in modo efficiente fra usi alternativi. Anche se il mercato fosse in grado di distribuire le risorse idriche fra i vari usi, di fatto esistono molte imperfezioni che non permettono di farlo in modo efficiente. E in una logica di mercato la gestione delle risorse idriche si confonde con quello della gestione dei servizi idrici. Nessuno nega che sia necessario un aumento di efficienza tecnologica, l’unica che deve rappresentare un costo, ma non confondiamo il costo del progresso di questa con l’attribuire un prezzo alla risorsa in se stessa che è di tutti ed a tutti deve essere resa disponibile senza la cosiddetta prova del mercato (o meglio delle tasche di tutti noi). Si scambia la causa per l’effetto: i diamanti non sono pochi perché costano tanto, ma costano tanto perché sono pochi e aumentarne o diminuirne il prezzo non ne cambierà il numero. Occorre porre dei vincoli preventivi all’utilizzo delle risorse in modo da proteggere le funzioni dell’ambiente e assicurare le basi potenziali per uno sviluppo sostenibile. Si tratta in questo caso di considerare la preservazione dell’ambiente come un bene pubblico dove il volume totale del bene è definito a livello politico e non dalle azioni individuali che avvengono nel mercato.
La discussione sui temi della sanità – sicuramente momento centrale del prossimo confronto elettorale di giugno – inizia già a deragliare, soprattutto riguardo i legami che i temi dell’economia hanno con quelli dell’organizzazione sanitaria.
Il primo rischio è quello del “mito dei modelli”, che si riferisce alla convinzione di come sia possibile applicare alla sanità modelli di analisi, valutazione e controllo propri di altri settori, sperimentati nelle realtà private di produzione e scambio di beni. Così come la fiducia nell’importare nel settore sanitario modalità manageriali tipiche di altre realtà. L’organizzazione della salute ha infatti peculiarità e complessità riconosciute che non permettono queste trasposizioni.
Un secondo mito da cui guardarsi è quello definito come quello della “cassetta degli attrezzi”. L’impiego di nuovi strumenti di gestione fornisce spesso l’impressione, soprattutto tra gli operatori sanitari, di essere un moltiplicatore di informazioni (veri e propri metri cubi di tabulati) non utilizzabili a fini decisionali. La capacità di lettura di questa gran massa di informazioni è infatti ancora estremamente modesta e le ricadute sui processi di decisione sono del tutto insoddisfacenti.
L’ultimo è quello della “quadratura dei conti” dove l’errore è considerare l’equilibrio economico-finanziario come un obiettivo, a volte l’unico, da raggiungere e non come un vincolo da rispettare. La preoccupazione è che l’attenzione nei confronti dell’efficienza possa far passare in secondo piano quella dell’efficacia sul contributo che le prestazioni della sanità possano portare al miglioramento dei livelli di salute collettiva e di capacità di rispondere ai bisogni, sempre in trasformazione, della popolazione. Un eccesso di efficientismo potrebbe portare a dimenticare la valutazione dell’efficacia complessiva del servizio, la capacità di un’azione di raggiungere l’obbiettivo per la quale era stata congeniata.
Tenendo conto di tutto ciò risulta chiaro come il riferirsi a modelli “lombardi”, porsi come fine l’efficienza senza prendere in considerazione l’efficacia delle prestazioni o riferirsi a semplici dati economici, siano posizioni che gettano fumo negli occhi e che non portano da nessuna parte. Posizioni, peraltro, come sempre portanti nella destra piemontese e nazionale.
Gli industriali stanno chiedendo nei fatti all’Unione Europea di fare marcia indietro sulla questione ambientale.
“Si uccide l’industria” ululano, proprio quando i venti della recessione iniziano a sferzare.
Una delle cose che abbiamo imparato da queste crisi finanziarie è il fatto che il libero mercato smette di funzionare e crea disastri nel momento in cui gli attori del sistema, noi in definitiva, non possiedono tutte le informazioni corrette. I prezzi, in definitiva, non rispecchiano il vero valore delle cose e via discorrendo fino a momenti di crisi globale come l’attuale.
Ecco quindi il nuovo mantra proclamato urbi et orbi: lasciateci inquinare un po’ di più, o almeno un po’ più a lungo. In caso contrario arriverà il diluvio universale.
Noi non siamo eco-catastrofisti gratuiti, ma come dicevamo prima, qualche cosetta di politica e di economia l’abbiamo imparata.
Se quindi vogliamo giocare tutti ad armi pari, basterebbe ottenere una cosa molto semplice: fare emergere quali sono i veri costi ambientali e sociali delle attuali produzioni e chi le paga.
In modo cioè che il mercato sappia e mostri i veri costi delle merci prodotte: il prezzo totale dovrà cioè esprimere la propria verità ecologica.
In caso contrario il mercato venderà le merci prodotte a prezzi inferiori rispetto ai costi totali veri, per la semplice ragione che questi non conterranno le risorse destinate al disinquinamento, alle cure delle malattie correlate, allo smaltimento dei rifiuti prodotti e che continueranno ad essere pagati dalla comunità nella sua generalità attraverso le tasse, ribaltando cioè questi costi all’esterno, sulla comunità. Che poi siamo noi cittadini sottoposti alle tasse.
Spulciando tra i programmi elettorali in Europa, ci si può imbattere in una proposta apparentemente curiosa riguardante la sanità. In sintesi l’idea è quella di trasformare le articolazioni corrispondenti alle nostre Asl in organi elettivi. In realtà l’idea non è così curiosa come potrebbe apparire e ne abbiamo traccia anche in Italia nell’opera di Giulio Maccacaro. fondatore di Medicina Democratica. Proprio oggi, nel pieno della discussione di deficit sanitari, di critica ai poteri dei Direttori Generali sempre più monocratici, di ingerenze della politica persino nella nomina dei primari degli ospedali, questa proposta non è certamente da scartare. Malgrado tutto, infatti, uno dei settori di spesa maggiormente delicati e certamente onerosi, rimane in mano diretta non tanto della politica, quanto dei politici senza nessun vero controllo da parte di chi fruisce dei servizi sanitari. Il fatto che chi amministra il settore locale sanitario debba rispondere direttamente ai cittadini senza interposizioni e debba presentare un ventaglio di soluzioni al giudizio degli stessi fruitori del servizio con possibilità di scelta, potrebbe configurarsi come una piccola rivoluzione positiva con una semplificazione tra chi governa un sistema e chi ne usufruisce, rendendo maggiormente responsabili anche i cittadini del territorio sulle scelte da compiere e sottraendo la nomina al clientelismo politico e a meccanismi oscuri da parte ad esempio dei Presidenti di Regione che continuano a non essere perfettamente chiari. Chiaramente questa è una traccia che deve essere maggiormente sviluppata per ciò che riguarda il nostro territorio e che necessita di limiti e contrappesi adeguati come obbiettivi di politica sanitaria nazionali condivisi e mantenimento di interesse pubblico. Ma sicuramente ha il pregio della chiarezza, della responsabilità dei cittadini di una comunità data, della possibilità di scelta tra diversi programmi, di elezione di tecnici con una certa conoscenza del territorio in questione e via discorrendo.
Sempre per il tema elezioni e ambiente sarebbe interessante valutare non tanto il tasso di ambientalismo delle diverse formazioni, quanto che uso vorrebbero fare degli strumenti che le politiche ambientali pongono a disposizione.
Infatti esiste un ventaglio di opzioni che vanno dalla possibilità di creazione di nuovi posti di lavoro alla scelta di politiche economiche quali il passaggio dalle tasse sul lavoro a quelle sulle emissioni e diversi altri strumenti secondo gli sviluppi della scienza economica ambientale.
Un timido accenno era stato fatto in passato nel proporre qualcosa di simile al sistema del doppio dividendo. Per non cadere nella solita proposizione tipo “più lampadine per tutti” che lasciano il tempo che trovano dopo la nuova corsa alle centrali nucleari, ritengo interessante riproporre la domanda di Biorn Lomborg, “l’ambientalista scettico” che attraverso la creazione della Copenhagen Consensus Conference ha costruito un interessante discussione attorno ad un semplice quesito:
If the world would come together and be willing to spend, say, $50 billion EXTRA over the next five years on improving the state of the world, which projects would yield the greatest net benefits?
(in sostanza: se la terra avesse la possibilità e volesse spendere 50 milioni di dollari in più nei prossimi 5 anni per migliorare lo stato del mondo. quali progetti potrebbero avere i migliori benefici netti?). La domanda è sottile per diverse ragioni.
Oltre a definire una risorsa certa e determinata, senza il solito tormentone del dove prendo i soldi, ci chiede non quali interventi vorremmo fare, ma quali progetti possiedono il requisito del beneficio netto marginale, cioè quali progetti posseggono realmente la qualità dell’efficienza economica. In soldoni quali sono le azioni che ottimizzano meglio la spesa, allocano al meglio le risorse.
La risposta a questa domanda, ad esempio, porterebbe a definire una vera e propria lista di priorità a seconda dell’efficienza del progetto.
Chiaramente nel nostro caso dovremmo caratterizzarla più precisamente per il settore ambiente, lasciando però che le priorità che scaturirebbero contengano anche altri tipi benefici extrambientali.
Questa ritengo sia la domanda corretta che la politica deve porsi nel momento in cui decide di destinare le risorse, sempre poche comunque, che ha a disposizione.
Quando parliamo di ambiente non possiamo non parlare di salute. Un esempio fondamentale è il legame che esiste tra la sfida energetica e la tutele della salute. Uno dei nodi principali infatti non sembra essere tanto la possibilità di reperire energia, bensì le conseguenze dell’utilizzo di fonti fossili energetiche alle quali ci stiamo affidando in modo “eccessivo” e i relativi impatti dannosi. Quindi uno dei primi passi da compiere è l’individuazione degli effetti sull’uomo e dei fattori scatenanti. Richard Klausner individua alcuni punti su cui interrogarsi preventivamente nella valutazione delle differenti possibilità di scelta:
- quali saranno gli effetti
- in che modo si manifesteranno
- quale sarà la loro portata
- quando si manifesteranno
- chi verrà colpito in misura maggiore.
Esistono strumenti scientificamente consolidati per rispondere a queste domande?
Uno degli strumenti più raffinati che viene impiegato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nelle sue rendicontazioni sullo stato globale della salute è il DALY, sigla che significa Disability-Adjusted Life Years. Questo strumento permette di “misurare” il peso della malattia in una comunità attraverso la combinazione di diversi parametri: perdite dovute a morte prematura e perdite di vita sana dovuta a forme di inabilità. Un singolo DALY è uguale alla perdita di un anno di vita in buono stato di salute. Tra le diverse funzioni, il DALY serve anche a selezionare e misurare il costo degli interventi per la prevenzione e/o cura di determinate malattie, quindi anche per la definizione delle priorità in sanitarie e per la scelta dell’attribuzione di risorse finanziarie e umane.
Una proposta che sostengo per la prossima legislatura regionale in Piemonte è il rafforzamento di questo tipo di parametri per valutare in maniera più scientifica, comprendere gli impatti di ciò che scegliamo dal punto di vista ambientale e disegnare le priorità in sanità derivanti dalle scelte ad esempio energetiche che ci apprestiamo a compiere.
Lo spostamento di risorse pubbliche verso attori “privati” può avere aspetti sfuggenti. Tra i meno conosciuti c’è quello delle conoscenze prodotte all’interno dei sistemi sanitari: la necessaria costruzione del nostro sapere scientifico che progredisce e ci fa avanzare nella capacità di rispondere ai bisogni di salute della popolazione. Oggi questa capacità viene sistetizzata nel termine di “Educazione Continua in Medicina” o ECM. Sembrerebbe normale che tale sistema che ricomprende il sapere sulla salute, debba trovare delle forme di gestione condivise e all’interno di un sistema universalistico e pubblico. Anche solo per il semplice fatto che i contenuti formativi sono prodotti nella stragrande maggioranza dei casi da professionisti che lavorano nel sistema sanitario nazionale il quale, tra l’altro, fornisce con le proprie strutture gli strumenti e i dati utilizzati per costruire questo insieme di conoscenze. Nei fatti l’uso dell’accumulo delle conoscenze e l’indipendenza culturale non è proprietà pubblica che in percentuale minima: molto spesso il sistema sanitario si trova non solo ad utilizzare, ma a dover acquistare contenuti formativi generati da professionisti che sono propri dipendenti e che cedono ai privati – ad agenzie di formazione o direttamente alle industrie – le conoscenze maturate. Riepiloghiamo per chi non credesse ai propri occhi: 1) il sistema sanitario pubblico genera la gran parte delle conoscenze aggiornate attraverso i propri professionisti; 2) gli stessi professionisti vendono ai sistemi privati tali conoscenze a provider privati; 3) gli altri professionisti e le aziende sanitarie stesse acquistano conoscenze dal sistma privato per l’aggiornamento continuo obbligatorio! Questa semplice equazione è desumibile dai dati di AGENAS: il numero di eventi accreditati a livello nazionale per l’aggiornamento degli operatori sanitari è aumentato negli ultimi tre anni, parallelamente all’emergere di nuovi bisogni formativi avvertiti dal personale sanitario, messo a dura prova nei tre anni di emergenza pandemica: riferendoci – ripetiamo – alla sola formazione accreditata a livello nazionale, si è passati da 17 mila eventi nel 2020 a quasi 28 mila (2021) e ai 32.567 del 2022. Il ricorso a provider privati di educazione continua a essere prevalente: negli ultimi tre anni la percentuale di eventi sponsorizzati è sempre stata superiore al 50 per cento. Ancora peggiore è l’offerta di eventi formativi rivolta ad altri operatori sanitari: per esempio, i dati Agenas 2020-2022 dicono che gli eventi accreditati a livello nazionale rivolti agli infermieri sono meno della metà di quelli accreditati per i medici, nonostante la popolazione infermieristica sia molto più numerosa. Un tentativo di arginare tale sistema viene compiuto dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) e diversi ordini provinciali dando un contributo importante nel proporre diversi eventi centrati soprattutto su tematiche riguardanti la deontologia professionale e la bioetica. Ma nel complesso l’investimento pubblico nella formazione potrebbe essere in calo: in particolare, nel 2020 la spesa per la formazione si è ridotta del 19.3% con flessioni anche superiori al 40 per cento in molte regioni.
Altra segnalazione in merito sono i risultati di una survey pubblicata sul Journal of European CME – che raccontano come la maggior parte delle società scientifiche in ambito medico ha cercato finanziamenti esterni per congressi (93 %) e corsi di formazione in presenza (86 %). I finanziamenti per i congressi sono arrivati da fonti diverse ed erano giustificati a fronte dell’inserimento nell’agenda del meeting di sessioni organizzate dall’industria, come i simposi satellite previsti al di fuori del programma scientifico. Le attività online sono state finanziate per lo più dall’industria (79 %) mentre le attività sincrone ( i webinar dal vivo) lo sono state di meno (64 %). Dalla stessa indagine, le società scientifiche lamentano problemi legati alle risorse, alla difficoltà di fare una programmazione a medio termine delle attività formative e alla mancanza di competenze digitali nel pianificare e realizzare dei corsi. Le società hanno anche sottolineato come il gran numero di eventi organizzati da altre organizzazioni renda più difficile raggiungere un numero ampio di operatori sanitari”. In sostanza i provider privati si stanno sostituendo in maniera pervasiva alle agenzie pubbliche di formazione. Chiaramente se la formazione di chi opera nel sistema sanitario nazionale diventa territorio di conquista di soggetti privati non sarà una sorpresa vedere l’attuazione non dei genuini bisogni formativi di chi lavora nel mondo della salute ma la proposizione e la spinta all’utilizzo di un insieme di modelli diagnostici, di terapie e dispositivi medici che possono ricongiungersi agli interessi degli stessi provider privati. Oltre all’impegno squilibrato verso aree medico-chirurgiche più attrattive per le ricadute economiche delle industrie, cosa già nota per la farmaceutica. In sostanza si crea una vera e propria disuguaglianza tra i diversi settori specialistici, amplificando le disuguaglianze anche tra il personale dei centri con maggiore e minore volume di attività (i primi sono più corteggiati dagli sponsor perché hanno una potenzialità prescrittiva maggiore), malgrado i bisogni sanitari della popolazione non siano diversi su tutto il territorio. Non ultimo il fatto che tale sistema porta inevitabilmente a differenze molto sensibili nelle diverse zone geografiche del nostro Paese.
Ulrich Beck l’ha chiamata “società del rischio” e credo avesse ragione. Bisognerebbe rispolverare con interesse alcune delle sue tesi, proprio nel momento in cui vorrebbero farci credere che esista un’emergenza della mortalità sul lavoro. Forse però non è un’emergenza, ma queste morti sono connesse con il nostro modello di sviluppo che supinamente stiamo continuando a scegliere, sono intrinseche ad esse. Perché i rischi cambiano anche la loro natura: non derivano più dall’esterno, dal non-umano, dalla fatalità naturale, ma dipendono da decisioni. Sono il riflesso di azioni ed omissioni dell’uomo stesso, la conseguenza di forze produttive fortemente sviluppate. La produzione delle condizioni di vita della società nella sua interezza diventa quindi un problema ed oggetto di ripensamento: la società deve venir messa a confronto con se stessa. Paradossalmente infatti sembra quasi che la fonte del pericolo non sia più l’ignoranza ma la stessa conoscenza, non un dominio carente della natura, ciò che si sottrae alla capacità dell’uomo, ma il sistema di norme e di vincoli oggettivi stabilito con la crescita industriale. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che la società in questo sviluppo ha seguito un percorso “suddiviso”, dove il sistema politico-amministrativo e quello tecnico-economico si sono sviluppati in due rami diversi. Da una parte il principio della partecipazione dei cittadini, l’elaborazione condivisa delle decisioni con regole democratiche e l’esercizio del potere politico e del comando che devono derivare dal consenso dei governati. Dall’altro lo sviluppo di un qualcosa che viene percepito come non-politico, ma è invece tutto politico. Il progresso tecnico è equiparato acriticamente a quello sociale e la direzione di sviluppo e i risultati tecnici seguono inevitabili vincoli oggettivi tecnico-economici, dove gli effetti negativi trovano giustificazione nell’innalzamento degli standard di vita. Il problema è che questo processo è completamente sottratto al vaglio politico, possiede un potere di realizzarsi immune alla critica e infinitamente più veloce rispetto alle procedure democratico-amministrative. Dice efficacemente lo stesso Beck: “il progresso sostituisce il voto. Più ancora diventa un sostituto dei problemi, un tipo di consenso preventivo su fini e conseguenze che rimangono ignoti ed innominati. (…) Solo una parte delle competenze decisionali che strutturano la società è legata assieme nel sistema politico e sottoposto ai principi della democrazia parlamentare. Un’alta parte è sottratta alle regole dei controlli e della giustificazione pubblica e delegata alla libertà di investimento delle imprese (…). I cambiamenti sociali sono rimossi come effetti collaterali latenti delle decisioni, dei vincoli e dei calcoli tecnico-scientifici. Ci si afferma sul mercato, si utilizzano le regole di realizzazione dei profitti e così facendo si rovesciano le condizioni della vita quotidiana.(…) Da un lato, le istituzioni del sistema politico presuppongono, per ragioni funzionali e sistemiche, che il ciclo produttivo di industria, tecnologia e economia. Dall’altro ciò fa sì che sotto tale copertura giustificativa venga data per scontata la trasformazione degli ambiti di vita sociale in contraddizione con le regole della democrazia: conoscenza dei fini della trasformazione sociale, discussione, voto, consenso.” Anch’io la penso come Ewald la cui teoria segna un significativo cambiamento: la costruzione del welfare non deve essere interpretata in termini di mantenimento dell’ordine sociale o di miglioramento della produttività nazionale, ma consolidarlo, ricostruirlo come fornitura di servizi (assistenza sanitaria), creazione di schemi assicurativi e regolazione dell’economia e dell’ambiente in termini di creazione della sicurezza. Questo nuovo welfare è il nostro compito.