I numeri di Torino del quattordicesimo Rapporto Rota – fresco di pubblicazione e qui scaricabile – sono impietosi e preoccupanti. Soprattutto nelle conclusioni emerge come il capoluogo piemontese mostri livelli di sofferenza maggiori rispetto alle altre aree metropolitane, con una accentuazione nell’ultimo anno. Basti pensare che nel 2012 in Provincia di Torino hanno chiuso i battenti più imprese di quante ne sono nate e il numero dei fallimenti presenta il valore più alto registrato negli ultimi dieci anni. I settori tradizionalmente determinanti per l’economia della nostra area – automotive, informatica e comunicazioni – non mostrano segnali di ripresa e scontano svantaggi logistici e dimensionali. inoltre i comparti più dinamici a livello nazionale sono pressoché assenti nel torinese con l’esempio principe dell’industria farmaceutica. Il post-olimpico è ormai un settore che si è rapidamente sgonfiato senza segni incoraggianti né per ciò che attiene il settore turistico né il comparto fieristico. “Nel complesso, il sistema produttivo torinese”, rileva nelle conclusioni i Rapporto, “ha ormai uno dei livelli di produttività più bassi del Centro-Nord, nonostante un costo del lavoro relativamente contenuto. A frenare l’economia locale sono soprattutto numerosi fattori di contesto: una ridotta presenza di risorse giovanili, bassi livelli di scolarizzazione e poca capacità di attrarre lavoratori qualificati, una debole dotazione di infrastrutture di trasporto (soprattutto aereo) e telematiche, alti costi energetici, un difficile accesso al credito. Le performance complessivamente medio-alte della provincia torinese nel campo dell’innovazione e dei servizi pubblici paiono non bastare, da sole, a controbilanciare l’insieme di fattori critici appena esposti”. Importante, nella discussione del problema, è la sottolineatura di come non sia detto che i soli enti pubblici debbano compiere le scelte strategiche, ma come sia centrale l’apporto degli attori privati che possono contribuire anche grazie al ricorso a nuove tecnologie e piattaforme di condivisione per far emergere scelte “dal basso”.
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
Finanziare la ricerca è un “mantra” che sentiamo spesso ma di cui, forse, non siamo del tutto convinti. In Gran Bretagna qualcuno si è posto il problema e ha cercato di capire perchè, quanto e come. Succede che l’Istitute of Physics (Iop) del Regno Unito, che raggruppa i ricercatori di quella branca, chiede alla Deloitte, il più grande consulente manageriale al mondo, di essere passata al setaccio e di analizzare il peso della Fisica nei diversi settori produttivi del Paese. Dalla manifattura tessile, metalmeccanica, all’industria estrattiva passando per le telecomunicazioni capire attraverso gli acquisti, il consumo di beni, servizi, i salari e quant’altro capire il contributo al’economia in tempi di razionamento delle risorse per poter avere cosa e come la politica deve fare nei confronti di una scienza alla fine considerata non così rilevante e facilmente sacrificabile rispetto ad altri aspetti dell’economia. Il quadro restituito da Deloitte dovrebbe far riflettere anche la politica nostrana sul come far uscire dal loop recessivo anche economie deboli come la nostra. I dati forniti da Leopoldo Benacchio su “Nòva” non ammettono molte repliche: la fisica contribuisce all’economia inglese con 90 miliardi € che salgonoa 270 considerando l’indotto; fa lavorare direttamente più di un milione di persone che salgono a 3.9 milioni con l’indotto. In totale il suo peso è considerato più importante del settore delle costruzioni. E per ciò che riguarda il nostro Paese basterebbe fare l’esempio dela costruzione dell’LHC di Ginevra dove le nostre industrie manifatturiere hanno ricevuto commesse per un importo equivalente a circa il doppio di quanto l’Italia ha versato al Cern. Questa è la serietà con cui dovrebbe confrontarsi la nostra capacità di decisione politica: ricordiamocelo!
” Sul Grand Canyon c’è un cartello a caratteri cubitali che dice: “Non dare da mangiare agli animali selvatici”. In caratteri più picoli spiega che in questo modo gli animali perderebbero la capacità di andare in cerca di cibo, mettendo a repentaglio la loro sopravvivenza nell’ambiente naturale. Sono stati gli uomini a piantare il cartello. Se la questione fosse stata demandata agli animali, la maggior parte di loro avrebbero forse preferito non esporre alcun cartello: meglio approfittare della generosità dei turisti e tanti saluti alla sopravvivenza della specie, se questo significa dover rinunciare a un pasto senza fatica. Lo stesso vale per il mondo degli affari. Individualmente, ogni imprenditore ha vita più facile se foraggiato dal governo: ecco perchè si spende tanto in attività di lobby. Ma nel suo complesso il sistema di mercato peggiora. Come sarebbe pericoloso lasciare che fossero gli animali a dettare le regole dei parchi nazionali, è imprudente permettere agli uomini di affari di imporre le regole del business, perchè non tengono in considerazione quanto i salvataggi indeboliscano il funzionamento del mercato. Al pari di dar da mangiare agli animali selvaggi, sovvenzionare le grandi banche e imprese per evitare i dissesti finanziari sembra un atto caritatevole, ma alla lunga nuoce al beneficiario. Un Paese che protegge gli animali dall’azione corruttrice del cibo dei turisti dovrebbe anche proteggere il mondo delle imprese dalla corruzione dei sussidi”
Luigi Zingales: “Manifesto Capitalista” Rizzoli editore
Devo dire che su una cosa sono d’accordo con quello che ha detto oggi Beppe Grillo: la questione della Regione Lazio ed altre similari, rappresentano solamente “briciole” rispetto ad altre partite come quelle delle concentrazioni della produzione dell’energia, industriali, delle aziende municipalizzate e via discorrendo. Effettivamente credo che ci stiano dando in pasto solamente robetta che, giustamente, indigna e provoca sommovimenti emetici (vomito per intenderci), ma che non rappresenta la vera “ciccia” di tutto ciò che sta avvenendo non solo nel nostro Paese. E, politicamente, basterebbe incrociare questo argomento con quello che, ad esempio, scrive Zingales sulle concentrazioni di monopolio e sul capitalismo drogato, per capire che esistono davvero altre strade rispetto all’ordine attuale, Però bisogna mettersi a studiare di più e non lasciarsi “intortare” da qualche giornale o network televisivo che sia.
P.S. Avendo frequentato un po’ di aule consiliari e sapendo che il ruolo delle opposizioni ha, come pilastro, il controllo dei conti mi sorge una piccola domanda: ma l’opposizione di sinistra dov’era?
Il Partito Democratico propone l’introduzione di una “patrimoniale”. Bene, sono personalmente d’accordo. Ma dall’enunciazione alla pratica ne corre. Così, per non rimanere delusi dopo, bisognerebbe anche capire come farla. Non sto parlando di cifre, di linee guida su cui costruire una sorta di prelievo “equo”, di pratiche ragionieristiche. Semplicemente, per fare una patrimoniale in tempi certi, bisognerebbe avere un’anagrafe dei patrimoni aggiornata e sufficientemente complete ed attendibili. Oggi questa 2anagrafe” non esiste e quindi l’eventuale “patrimoniale” rimarrebbe un pio desiderio. Allora, per far capire che si fa sul serio in caso prevalesse alle prossime politiche la “versione” di Bersani, bisognerebbe iniziare a costruirla con un semplice atto legislativo del Parlamento che non credo proprio costerebbe granchè. Dal momento che non costa e che oggi esiste una maggioranza di cui fa parte lo stesso Bersani, giusto per non creare aspettative irrealizzabili, soprattutto nei tempi, si agisca di conseguenza. E gli elettori, sicuramente, gradiranno. Molto.
C’è questa faccenda dei tagli alla sanità, su cui si sente di tutto e di più. In realtà nessuno ha ancora visto bene “le carte” e tutti parlano di tagli senza sapere bene in cosa consisteranno. Chi lavora in sanità sa bene che è un problema molto complesso e che l’economia sanitaria, come quella ambientale, è un argomento conosciuto pochissimo e che si avvicina alla composizione della formazione della nazionale di calcio. Ma in tutte le discussioni, televisive o meno, manca davvero la voce di chi ci lavora in sanità; oltre al fatto che medici ed infermieri sono ormai del tutto estromessi dal governo sanitario in mano ad una pletora di amministrativi non secondo nemmeno a chi vive di politica. Ma le cose più curiose si registrano su fatti come le famose siringhe che costerebbero 1 € a Sucate di sopra e 10 € a Vigata. Di recente ne ho sentita una simpatica da un economista sanitario su cui varrebbe la pena di riflettere, per incominciare. Oltre al fatto che i cosiddetti costi “standard” non funzionerebbero per diversi motivi, la cosa che mi ha colpito è il motivo per cui la siringa di Sucate costerebbe molto meno di quella di Vigata: semplicemente perchè la Regione di Sucate paga la ditta fornitrice entro 90 giorni, mentre quella di Vigata lo paga in circa 6 mesi – sempre che lo paghi. Inoltre se i due ospedali si mettessero in testa di comprare un semplice apparecchio per fare un elettrocardiogramma, i costi potrebbero differire semplicemente a seconda della garanzia che lo strumento avrà: se lo assicuro per un mese lo pagherò 1, mentre se lo garantisco per un anno con immediata sostituzione se presenta anomalie, potrei pagarlo 10. Le “cose” che si usano in sanità hanno sicuramente un costo molto alto, dato dalla loro natura e dalle applicazioni che si fanno, ma il problema immediato non è dato dalla “natura” del bene appartenente alla sanità, ma da semplici leggi di mercato che valgono per tutti i settori. Basterebbe davvero poco per iniziare, lasciando a casa demagogie e populismi idioti professati da chi non conosce la materia su cui pontifica. E comunque io avrei fatto entrare durante la partita con la Spagna Diamanti…
Un bella provocazione di Dario di Vico pubblicata sul Corriere della Sera del 6 maggio 2012
“(…) La deriva psicologica che sta investendo la parte più debole dei ceti produttivi, dei pensionati e dei disoccupati necessita, qui e subito, di un’azione di contrasto. Senza dividersi tra filo e anti Monti. Bisogna mandare agli uomini soli e dimenticati un messaggio di speranza. “ Ce la puoi fare e noi siamo qui per aiutarti”. Rinunciamo pure ad uno o due dei nostri tanticonvegni autoreferenziali e dedichiamo lo stesso tempo all’ascolto della società fragile. Non sarebbe una cattiva idea che ciò avvenisse persino nella forma di una giornata nazionale di mobilitazione e solidarietà che schierasse nei luoghi del dissagio le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese, il volontariato e il mondo del non profit, la cooperazione, gli psicologi, la Chiesa. Qua e là nei territori iniziative di questo tipo si sono già tenute o sono in preparazione. L’importante è che queste assemblee non si trasformino in tournée oratorie di sindaci, assessori, segretari di qualcosa, esperti improvvisati tutt pronti a sfoggiare una dotta citazione di Emile Durkheim. Piuttosto facciamo parlare chi finora è stato zitto, diamo il microfono agli invisibili. Per troppo tempo abbiamo confuso la coesione sociale con il tavolo della concertazione e poi abbiamo scoperto che non erano la stessa cosa.”
Un libro davvero fondamentale “Terremoti Finanziari” di Raghuram G. Rajan – ed. Einaudi – per capire cosa sta succedendo, quali sono le fratture, le “faglie” ancora nascoste che è necessario comprendere per non ricadere, qual è il ruolo dei governi, perchè è fondamentale investire nella formazione e nella costruzione di un cittadino forte e sano, al di là di ideologie che non riescono più a farci leggere la realtà.
” (…) Dobbiamo anche riconoscere che una buona economia non può essere separata da una buona politica – e questa, forse, è la ragione per cui un tempo la teoria economica era nota come economia politica. L’errore degli economisti è stato credere che, una volta sviluppato un forte telaio di istituzioni all’interno di un Paese, le influenze politiche al suo interno si sarebbero stemperate e il Paese si sarebbe emancipato per sempre da una condizione “in via di sviluppo”. Ma dovremmo ora ammettere che istituzioni quali i regolamentatori hanno influenza soltanto finché la politica è ragionevolmente ben bilanciata. L’esistenza di squilibri profondi, come per esempio la disuguaglianza, può provocare ondate politiche in grado di superare i vincoli di qualsiasi istituzione. E, se comincia ad applicare politiche squilibrate, un Paese può tornare a condizioni in via di sviluppo indipendentemente dal grado di progresso delle sue istituzioni (…)”
Per lungo tempo dimenticata, la parola crescita è tornata protagonista del dibattito politico italiano. Ripetuta come un mantra, pare che, dopo decenni di indifferenza, finalmente si riscopra una comune consapevolezza che l’unica via di uscita dalla crisi è quella che passa attraverso un virtuoso percorso di crescita della nostra economia. Purtroppo il sostantivo crescita non è però né un mantra né tantomeno una parola magica; non basta ripeterlo in tutte le salse e con le più svariate intonazioni per far si che magicamente la crescita compaia guarendo il Paese dai suoi mali.
Cantiere Italia 2013 ha tra i suoi obiettvi la creazione di un fronte per la crescita, tramite la certezza che questa non vada solo evocata, ma debba essere posta al centro della politica del Paese, progettata, scomposta nei suoi fattori costitutivi per essere successivamente stimolata tramite riforme di lungo termine che vadano ad eliminare i tanti ostacoli sul suo cammino. (Continua a leggere l’articolo di Massimo Brambilla)
Se, come sembra, esistono lettere che vanno e vengono tra il nostro governetto e i palazzi della Banca Centrale Europea, bisogna pensare che c’è – o sta nascendo – un governo europeo che sovraintende la politica economica del nostro Continente. Sulla sua eventuale forza non possiamo esprimerci meglio, dato lo scarso peso e la manifesta incapacità del nostro governetto che non può essere considerato se non come la periferia di qualunque imperium. La Francia sì, potrebbe essere un valido test per questo Leviatano economico, dato il sentore di declassamento che anche la Republique inizia a sentire. Sarebbe comunque utile saperne qualcosina di più sui meccanismi di questo governo transnazionale che non assomiglia al WTO o ad altri figlioletti di Bretton Woods. Magari per diversi anni abbiamo inteso male cosa fosse in realtà la famosa “mano invisibile”…