La cura della nostra salute costa circa l’80% del bilancio delle nostre casse regionali. Questo semplice fatto rende conto dell’attenzione che i tagliatori di spesa a tutti i livelli prestano al “forziere” sanità cercando di trovare lì il propellente liquido per far fronte alle attuali crisi. Finora la scure è calata con modalità di semplice comprensione anche ai non esperti: tagliare dappertutto di una X percentuale in maniera “lineare”, cioè sia a livello di ospedali che di regioni, servizi, personale, strumentario e via discorrendo. Insomma abbiamo fretta, i soldi sono in gran quantità spesi per la salute, bisogna cercare di non scontentare più di tanto nessuno e quindi sembrerebbe davvero equo tagliare una certa porzione in maniera uguale a tutti. Ma davvero questo metodo ci porterà ad una nuova salute finanziaria? Pare di no leggendo un “working paper” a cura dei ricercatori dell’ALTEMS (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari) dove un confronto delle performances economico-finanziarie tra le principali aziende ospedaliere del Lazio con alcune aziende nazionali, fa emergere alcune idee interessanti. Come ad esempio il livello di produttività e di efficienza delle singole strutture è molto differente e le singole aziende non producono tutte le stesse cose. E così tagliare di una stessa percentuale le risorse può condurre al collasso quelle che non funzionano bene ma non avvantaggiano certamente quelle che sono state precedentemente virtuose. Non solo, ma questo criterio in realtà produce più danni di quelli che vorrebbe sanare. Bisogna quindi certamente abbandonare ogni pregiudizio ideologico e interrogare in maniera veramente scientifica i dati, le informazioni che pure sono a disposizione per pensare in maniera assennata dove e come mettere le risorse a disposizione. Ma soprattutto colpisce la chiosa della presentazione: “In un tale contesto due opzioni sono possibili: (1) perseguire ottusamente il miraggio di un sistema totalmente pubblico ma “snello”, oppure, forse più pragmaticamente, (2) investire su quello che realmente funziona meglio sviluppando nell’amministrazione Regionale la funzione di “committenza” e conseguendo, attraverso gli strumenti già noti (autorizzazione stringente, accreditamento all’eccellenza, accordi contrattuali rigorosi, tariffario “competitivo”), una vera e propria rivoluzione, salvando la sanità pubblica della Regione.”
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
Si continua a parlare di “prezzi” e di sprechi nella sanità fornendo diverse ricette su come affrontarli, non senza un certa dose di di velleitarismo e dilettantismo. Ma cosa sta dietro alla famosa siringa che costa 1€ ad Acquapozzillo e 10€ a Fresconaccio di Sotto? Non solo le normali variabili “di mercato” come le differenze tra consegna e tempi di pagamento o le diverse quantità per cui più ne prendi meno paghi, tenendo comunque conto che esistono norme dettate dalla Comunità Europea sugli acquisti di forniture che si rifanno al prodotto più vantaggioso economicamente. Negli acquisti sanitari – come probabilmente anche in altri settori – esistono variabili da tenere in conto dettate dalle diverse condizioni che gli ospedali, ad esempio, richiedono. Così la possibilità di avere una più veloce ed affidabile assistenza dopo la vendita, la possibilità di stoccare non nel luogo di consumo i dispositivi, l’offerta di garanzie più estese o il training – cioè l’insegnamento – di come usare il prodotto, possono variare di molto la spesa. In sostanza i diversi criteri di scelta e di risultati attesi possono far variare i prezzi in maniera significativa. E proprio qui si innesta il discorso sulla cosiddetta “centralizzazione” degli acquisti, cioè sui risparmi attesi dal fatto che il responsabile della spesa sanitaria di un’area vasta – come ad esempio una Regione – compri direttamente il materiale e successivamente lo distribuisca lle divere aziende. Come infatti acutamente riportano Attilio Gugiatti e Francesco Longo su www.lavoce.info la centralizzazione adottata in diverse esperienze non porta automaticamente ad un risparmio. Il vantaggo più rilevante e significativa è infatti “il processo di governo clinico che si innesta, che obbliga i professionisti a uniformare le scelte tecnologiche, esplicitando i criteri si selezione, in base a logiche di costo-efficacia”. Un discorso che si lega anche alla valutazione della miglior efficacia, che dovrebbe essere una guida negli acquisti sanitari di importanza almeno pari – personalmente credo anche maggiore – al costo. Se il beneficio sulle persone curate, e quindi su una comunità, è maggiore dopo l’introduzione di una tecnologia con standard più alti, risulterà anche giustificato un prezzo unitario maggiore di un prodotto con minore efficacia. Semplice ma non sempre condiviso. La proposta è quindi quella di valutare, nella spesa sanitaria, più variabili rispetto al solo “prezzo” come l’efficacia clinica e gli impatti che l’impiego dei dispositivi provoca in una comunità. Oltre al fatto che sarebbe necessario costruire ciò che già il Piano Sanitario 2003-2005 prevedeva tra gli obbiettivi strategici: “promuovere la conoscenza e l’impatto clinico, tecnico ed economico dell’uso delle tecnologie; sviluppare banche dati sui dispositivi medici e sulle procedure diagnostico-terapeutiche associate con i relativi costi creando bencmarking”.