In tempi di governo tecnico bisogna adeguarsi e saper interpretare dati e numeri dei diversi campi del nostro vivere quotidiano, anche oltre l’economia. E così nasce – per ora lanciato dal Corriere della Sera – la figura dello “statistical editor” che avrà l’onore e l’onere di interpretare correttamente la grande quantità di cifre e statistiche riguardanti scuola, sanità, conti familiari e quant’altro inserendoli correttamente e rendendole finalmente “leggibili” per il normale cittadino. Segno di tempi “tecnici” o semplicemente un, benemerito, rilancio dell’educazione civica di antica memoria
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
Così dunque Obama ha perso. Come previsto, sebbene in maniera meno netta di quanto pronosticato e soprattutto di quanto speravano gli illuminati dei Tea Party, gli elettori americani gli hanno inflitto un voto-sanzione. Del resto, egli stesso l’ha immediatamente riconosciuto, con una semplicità, un’eleganza, un fair play degni di ammirazione.
Detto questo, la campagna per le elezioni di medio termine è finita. Ci sono argomenti che, finché la battaglia impazzava, forse facevano parte del gioco (per quanto…) ma, ora che si è conclusa e si torna alle cose serie, ci piacerebbe non sentire più.
Bisognerebbe smettere di dire, per esempio, che la politica economica di Obama ha «creato disoccupazione», mentre tutti gli studi scrupolosi (a cominciare da quello di fine agosto dei filo-repubblicani Mark Zandi e Alan Blinder) riconoscono che ha creato circa tre milioni di nuovi posti di lavoro e che il tasso di disoccupazione, senza di essa, si situerebbe fra l’11 e il 16%. Bisognerebbe smettere di raccontare che l’economia mondiale, con Obama e per sua colpa, stava correndo verso il fallimento, allorché è fortemente probabile (come scrive François David sul Figaro del 1˚novembre) che abbia cominciato a risollevarsi sotto l’impulso, certo, dei «Paesi emergenti», ma con l’appoggio — perché non ammetterlo? — di una politica monetaria statunitense, l’unica veramente possibile in un Paese i cui consumatori continuano a pesare, da soli, il 18% del Pil mondiale.
In ogni modo, non si può ritenere un presidente eletto due anni fa responsabile del cattivo stato dell’America, della lenta distruzione delle infrastrutture, del declino del sistema educativo o della produttività, come fa Arianna Huffington nel suo libro ( Third World America, Crown Publishing Group), poiché tale rovina è cominciata, lo dice bene lei stessa, quando Obama non era ancora entrato in politica. Non si può rimproverargli di agire al tempo stesso troppo velocemente e non abbastanza. Di preoccuparsi troppo dei consensi, di fare troppi compromessi con gli avversari, e di volersi imporre con la forza. Non ci si può impietosire sul suo 49% di opinioni favorevoli nei sondaggi, mentre altri — per esempio Sarkozy — sono fermi al 29%. Né sul «disincanto» dei suoi sostenitori, visto che due autori satirici — Jon Stewart e Stephen Colbert — sono riusciti, nelle ultime ore della campagna, a far manifestare sul National Mall 150.000 persone che gli erano furiosamente favorevoli. Non si può continuare a ripetere che un sisma minaccia Washington, quando a questo presidente accade quel che successe, a metà mandato, a tanti altri presidenti prima di lui: senza risalire fino a Eisenhower, Nixon o Johnson, Obama è più o meno nella stessa situazione di Reagan nel 1982, di Clinton nel 1994, di Bush nel 2006. Non è la fine del mondo.
Bisogna smettere anche di farfugliare che Obama «non ha mantenuto le promesse». Di quali promesse si parla? Per quanto riguarda il sistema sanitario che, prima di lui, condannava 46 milioni di poveri alla mancanza di cure e, quindi, a una morte precoce, egli ha avviato la più grande rivoluzione che il Paese abbia conosciuto dall’epoca del movimento per i diritti civili: certo, bisogna portarla a termine, rimane cioè da votarne il bilancio. Ma su questo punto la palla è nel campo dei repubblicani e spetterà a loro dire se si comporteranno da sabotatori o da responsabili.
Quanto all’Iraq, ha mantenuto la parola, poiché il ritiro, fin da ora, è avviato e alla fine del 2011 non ci sarà più un soldato americano a Bagdad o a Bassora. Quanto al Medio Oriente, ha fatto il contrario rispetto ai suoi predecessori, che aspettavano gli ultimi mesi dell’ultimo anno del loro ultimo mandato per accorgersi del problema e impegnarsi in una corsa contro il tempo, il cui principale scopo era di ottenere, strappandolo coi denti, come un trofeo, un vago accordo raffazzonato che, beninteso, in realtà non veniva mai raggiunto: Barack Obama, invece, si è reso conto dell’urgenza, e della complessità, dell’impresa fin dal primo giorno del primo anno del suo primo mandato. Già questo non è così male.