Questa mattina mi è capitato di leggere sulla pagina torinese de “La Stampa” una nota del Prof. Gallinaro – Direttore della I Clinica ortopedica del CTO – che dissentiva sul titolo del Convegno che si svolgerà il 25 ottobre a Torino: “Se questo è un medico” e invitava gli Enti a cui era stato richiesto il patrocinio a non concederlo. Personalmente mi sembrava un po’ fuori luogo ed eccessivo. Oltre al fatto che i problemi dei medici, e della sanità in generale, non mi sembravano quelli indicati dal Prof. Gallinaro. Ma tant’è. Questa sera, scorrendo la posta arrivata, mi imbatto nella brochure di questo convegno, destinatami come normale figlio di Esculapio, soffermandomi sul corposo testo di accompagnamento redatto dalla Dott.ssa Paola Mora.
Il testo è bello, ed elenca profonde verità che oggi sono vissute dai medici italiani e non, con rara lucidità: ho quindi deciso di riportarlo in calce per condividerlo con chi vorrà. Una considerazione però è naturale. Sarebbe stato più utile impiegare lo spazio a disposizione della blasonata testata cittadina non per polemizzare in maniera poco convincente e produttiva, ma per entrare meglio in questo “male di vivere” a cui oggi la professione medica è esposta e fornire chiavi di lettura utili a chi medico non è.
L’intenzione del “titolisti” del convegno risulta poi chiara se viene riportato anche il sottotitolo tratto da Qoelet (Ecclesiaste): “Se io non penso a me chi ci penserà? Se non ora, quando?”. E parafrasando, in modo, penso, corretto Levi ci verrebbe da chiedere: Se non ora, quando? Se non adesso quando e dove parleremo dei veri problemi della nostra professione?
P.S. come Assessore provinciale chiederò che venga concesso il patrocinio della Provincia di Torino. E cercherò di andare al Convegno
La tendenza a conformare gli ospedali pubblici sul modello imprenditoriale secondo al formula “l’ospedale è un’impresa”, lanciata qualche anno fa, porta a ragionare esclusivamente in termini di logica economica e strategica. I medici sono invitati a trattare i problemi di salute da un punto di vista economico: diventano così prigionieri, contro la loro volontà, di una logica che tende a escludere altre logiche, ben diverse, che entrano in goco nella pratica medica. (continua cliccando su leggi tutto)
Negli ospedali si vive sotto il segno dell’emergenza. Si cerca sempre di rimediare alle emergenze senza avre il tempo di programmare, pensare, aumentando continuamente la produttività con una maggiore tensione forza-lavoro. Se l’emergenza, il non pensiero e la tristezza governano il lavoro, per molti l’unico modo di proteggersi è la fuga verso pericolosi comportamenti disadattativi o l’abbandono della professione.
Le politiche sanitarie sono ridotte a misure di prescrizione disciplinare (con limitazioni, repressioni, controlli, spostamenti, demansionamenti) in modo da “ottimizzare” l’utilizzazione dei medici. Il sistema è fondato sulla minaccia: di non essere assunti, di essere demansionati, di non essere promossi, di essere assegnati a compiti ancora più gravosi con orari ancora più disumani. Ma come si può costruire la medicina in funzione della minaccia? La minaccia è iatrogena, perché tende a rompere tutti i legami che uniscono le persone.
La ripercussione di queste tendenze sul lavoro terapeutico è un’accoglienza basata sulla classificazione a priori delle patologie. Si abbandona una medicina delle diagnosi per una medicina delle classificazioni. Vi è l’obbligo di far rientrare il paziente in una base statistica. Il momento dell’incontro tra medico e paziente e poi quello delle diagnosi, che mettono capo ad un progetto condiviso, sono sostituiti da un momento in cui il medico deve porre domande preconfezionate che consentono di situare il paziente in uan griglia di lettura approntata da un programma informatico.
In nome dell’economicismo la medicina non può più occuparsi delcorpo umano ma solo del corpo sociale, la cui salute viene valutata in termini economici ovvero di costi sociali. Indubbiamente la gestione opedaliera è un compito necessario, ma risulterebbe più agevole se si articolasse a partire da una riflessione approfondita sui bisogni e sulle aspettative dei pazienti, sulle competenze e sull’impegno dei medici, oltre che naturalmente sulla natura specifica di ciò che deve essere “gestito”, vale a dire la sofferenza, il rapporto con la morte e con gli innumerevoli drammi umani. La produttività è ben lungi dall’essere l’unica posta in gioco.
La società chiede ai medici di “umanizzare” la medicina. Ciò potrà avvenire solo se essi adotteranno posizioni di resistenza alle correnti dominanti. Per potersi opporre bisogna avere, oltre che molto coraggio, coscienza dei propri diritti, delle leggi che tutelano il lavoro, di come farle osservare e da chi, dei rischi che si corrono e che si fanno correre lavorando in certe condizioni.
La società deve aiutare i medici ad affrontare con cognizione di causa la scelta se lavorare con e per i loro pazienti o rinunciare a questo tipo lavoro per diventare dei tecnici al servizio di una visione puramente economica del mondo.
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