Sono tempi di critica ai privilegi della politica, soprattutto dal punto di vista dei guadagni. In realtà sarebbe necessario ripensare la partecipazione politica in Italia tuot court, magari prendendo ad esempio cosa succede negli altri Paesi. Mi ha sempre colpito, ad esempio, cosa accade negli Stati di rito anglossassone dove i leader politici considerano l’accesso alle posizioni di potere come una fase della propria vita dove guadagnare popolarità e competenza che daranno successivamente frutti economici di una certa importanza. In sostanza la posizione di potere all’interno delle amministrazioni pubbliche non si traduce in ricchezza. Lo Stato, anche ad alti livelli, non paga, mentre sarà il mercato privato attraverso le successive collaborazioni, libri, conferenze, cooptazione in consigli di amministrazione per dirne qualcuna, a provvedere al benessere economico del politico che ha impiegato una porzione della propria vita a servizio, appunto, del bene pubblico e per un periodo di tempo generalmente molto meno sostanzioso rispetto a quello italiano. Manca in sostanza la stessa incentivazione ben rappresentata invece nel nostro Paese dove il mantenimento del ruolo per un periodo quanto più lungo possibile genera guadagni direttamente distribuiti dallo Stato che sarà difficile non ricercare all’infinito. Il tentativo di colpire il guadagno dei politici potrà avere davvero un senso nel momento in cui si interromperà questo cerchio, pensando al potere come un servizio “a tempo” che non genererà guadagni così alti rispetto alla media dei lavoratori, che non impoverirà lo Stato ma che potrà, eventualmente un riconoscimento successivo da parte del libero mercato.