Costanza Jesurum ha scritto un bel libro su “cosa accade a chi fa psicoterapia oggi”. Un argomento certamente molto difficile da digerire, soprattutto in tempi dove tutto è breve: terapia breve, velocità nella cura, immediata risoluzione dei problemi di qualsiasi natura, farmaci che agiscono nello spazio di un caffè (ma non si sa fino a quando…) e via di questo passo. Senza essere un vademecum in cui trovare allineate in ordine alfabetico le risposte alle domande che un po’ tutti si pongono quando si avvicinano al mondo della psicoterapia (che cos’è rispetto alla medicina? Perchè ci sono tante scuole? Perchè bisogna pagare le sedute che si saltano? Quali rischi si corrono nell’affidarsi a chi promette di guarire la nostra psiche?), il testo rappresenta un filo di Arianna che percorre le infinite e diverse sfaccettature di un incontro tra due menti permettendoci di non perdere mai la direzione o di saltare su altri mondi che poco hanno a che fare con l’argomento. Per arrivare a sentire che ogni psicoterapia è un campo affettivo dove si arriva credendo che una coosa sembri ma non sia, per scoprire che è diversa da quel che si credeva…
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
Franco De Masi non ha bisogno di molte presentazioni per chi pratica l’area della psicoanalisi. Già Presidente del Centro Milanese di Psicoanalisi, membro della Società Italiana di Psicoanalisi, ha al suo attivo molte pubblicazioni con una particolare attenzione per la comprensione psicoanalitica e la terapia dei pazienti più gravi. Leggere, però, il suo “Psicopatologia e Psicoanalisi Clinica” – ed. Mimesis, 2016 (pag. 216), ci riporta non solo ai fondamentali della materia, ma a tutto ciò che nella storia della disciplina si è mantenuto integro e vitale tenendo conto degli autori che hanno ampliato e contribuito all’evoluzione delle tecniche e delle teorie analitiche. Lontano dall’idea che esista una singola teoria psicoanalitica ortodossa, De Masi passa in rassegna i concetti del lavoro analitico senza pensare ad una loro linearità, ma cogliendone le molteplici stratificazioni che si sono aggiunte nel corso del tempo. Il testo non vuole essere una “summa” del sapere psicoterapeutico/psicoanalitico, ma è il naturale sviluppo dei suoi insegnamenti agli allievi della Sezione Milanese dell’Istituto Nazionale del Training della Società Psicoanalitica Italiana, registrate e trascritte dagli allievi e riviste dall’Autore. Il testo è, a mio modesto parere, un importante strumento da tenere nella cassetta degli attrezzi di chi sente la necessità di confrontarsi con chi ha praticato quest’arte e, soprattutto, ha vissuto in prima persona il presentarsi di nuove idee e tecniche che oggi vengono considerate dei classici, nel bene e nel male.
“L’aspettativa dei giovani analisti, che anch’io avevo ai miei tempi, è di poter arrivare a possedere un sistema organico di teorie e conoscenze tali da poter comprendere e orientarsi con sicurezza nel lavoro clinico. Purtroppo, invece, la conoscenza analitica deriva, e si arricchisce continuamente, dalla pratica clinica, che perciò diventa sempre più efficace. Non è possibile nessuna conoscenza valida sempre. Spesso l’analista , anche quando ha raggiunto un elevato livello di competenza, si meraviglia di quel che ancora non conosce e di come si ampli continuamente la sua visione. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, è chiaro che non esiste una teoria generale della psicoanalisi, ossia non esiste una teoria esplicativa che possa aiutarci a comprendere la molteplicità dell’esperienza clinica. Esistono invece alcune ipotesi che possono rivelarsi utile quando sono applicate ad ambiti psicopatologici specifici. In psicoanalisi, come in ogni scienza, non esistono verità eterne…”
La conferenza dello psicoanalista Otto Kernberg tenutasi a Torino e organizzata dall’Istituto di Psicoterapia Psicoanalitica
https://youtu.be/WTKoadcZVBU
Riproposto nella XII edizione nelle librerie, “Una stanza piena di gente” di Daniel Keyes è ormai un classico della letteratura non-fiction psicologica da leggere sia per la qualità della scrittura che per il tema trattato: il magistrale resoconto in presa diretta della storia personale e giudiziaria di un uomo con 24 personalità che tenne all’erta gli americani negli anni ’80 dello scorso secolo. Uscito nel 1981, ancora oggi rimane un testo che ci interroga non tanto sulla cosiddetta malattia mentale – nel caso specifico di quello che oggi è classificato come disturbo dissociativo dell’identità – ma su cosa può contenere la nostra mente, sui modi in cui può funzionare, sui rapporti tra il disturbo mentale e la società o, meglio ancora, sulle nostre risposte personali a ciò che consideriamo lontano da noi. E che lontano non è. La narrazione tesa e senza cali di tensione di Keyes lascia trasparire, tra le tante, l’idea della molteplicità che alberga anche nella nostra mente e di come ci muoviamo, forse, sul filo di una stessa linea che va da ciò che riteniamo e sentiamo come “normale” all’altro capo considerato come follia. Oggetti interni, parafrasando la psicoanalisi, che possono parlarsi e costituire la nostra identità “fusa” e sfaccettata oppure non riuscire a coesistere contemporaneamente e prendere ognuna il comando delle operazioni del nostro vivere escludendo le altre. Il racconto si ferma agli inizi degli anni ’80, con Billy Milligan ancora internato e alle prese con una vicenza giudiziaria molto complessa e apparentemente non risolta. Ma nel 1991, dopo altri due trasferimenti in manicomio, fu dichiarato guarito dalla patologia mentale da cui era affetto e non più sottoposto a cure psichiatriche. Si trasferì quindi in California dove fondò una casa cinematografica la Stormy Life Productions. Morì, all’età di 59 anni, nel dicembre del 2014 a seguito di un sarcoma molto aggressivo.
“Sta qui l’esperienza dell’azione umana [...] riconoscere la natura del desiderio che è al centro di tale esperienza, che una revisione etica è possibile, che un giudizio etico è possibile, il quale ripresenta la questione nel suo valore di Giudizio Universale – Avete agito conformemente al desiderio che vi abita?”
J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (§ XXIV. I paradossi dell’etica)
Superate le 400 parti per milione (ppm) di anidride carbonica in atmosfera. Questo il dato comunicato dall’Organizzazione Mondiale della Meteorologia (WMO) che certifica come il 2015 veda un superamento costante di una soglia che non è solo psicologica. Cosa significa? Se pensiamo che nell’era preindustriale i valori erano di 280 ppm, gli studiosi hanno posto il limite di 450 ppm per evitare il superamento delle temperature di 2 °C entro la fine di questo secolo. Per dirla ancora meglio, i calcoli degli scienziati suggeriscono che il superamento dei 2°C porterebbe enormi difficoltà per contrastare in maniera efficace il riscaldamento globale. Cosa sia possibile fare in buona sostanza lo sappiamo già. Tenendo conto ad esempio che il 23% del totale di immissione di CO2 viene dalle attività di trasporto, questo rappresenta un fronte aggredibile già ora. Pensiamoci…
di Luigi Pintor
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno. Non credo che lo facciano per opportunismo e che sia imputabile a singoli dirigenti. Dall’89 hanno perso la loro collocazione storica e i loro riferimenti e sono passati dall’altra parte. Con qualche sfumatura. Vogliono tornare al governo senza alcuna probabilità e pensano che questo dipenda dalle relazioni con i gruppi dominanti e con l’opinione maggioritaria moderata e di destra. Considerano il loro terzo di elettorato un intralcio più che l’unica risorsa disponibile. Si sono gettati alle spalle la guerra con un voto parlamentare consensuale. Non la guerra irachena ma la guerra americana preventiva e permanente. Si fanno dell’Onu un riparo formale e non vedono lo scenario che si è aperto. Ciò vale anche per lo scenario italiano, dove il confronto è solo propagandistico. Non sono mille voci e una sola anima come dice un manifesto, l’anima non c’è da tempo e ora non c’è la faccia e una fisionomia politica credibile. E’ una constatazione non una polemica. Noi facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata. Le nostre idee, i nostri comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica delle cose, rispetto all’attualità e alle prospettive. Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un’opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell’uccisione e della soggezione di sé e dell’altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un’altra parola antica che andrebbe anch’essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste.
Da Quotidianosanità
Il riordino degli ospedali piemontesi. Quei “maledetti” standard
Trovo rischioso che ci si limiti ad un riordino ospedaliero senza accedere contestualmente ad un discorso più ampio di riforma del sistema nel suo complesso, dal momento che le concomitanze tra territorio e ospedale sono innegabili
04 FEB - Ancora non abbiamo imparato, prima di fare danni, a mettere in campo delle valutazioni di impatto socio-sanitario per saggiare gli effetti delle politiche sanitarie sulle popolazioni interessate. La giuntadel Piemonte è stata costretta dalla contestazione dei propri territori a rivedere la sua delibera sul riordino degli ospedali (vedi articolo di QS con allegate le due delibere di novembre e gennaio).
A scrivere numeri sugli ospedali negli allegati delle delibere è facile ma prevedere i loro effetti reali, fisici, sulle persone che hanno bisogno nei loro svariati spesso complicati territori di vita è un altro paio di maniche. La mediazione che la Regione sta tentando con la nuova delibera di gennaio è di accontentare i territori in rivolta facendo sopravvivere alcune di quelle specialità considerate dalla precedente delibera “non assegnabili”.
Ma l’operazione di fondo, che è sostanzialmente una operazione a tavolino di neo-standardizzazione del numero dei posti letto, resta invariata soprattutto nei saldi. Gli standard alla fine, come dimostrano le proteste del territorio, sono astrazioni statistiche che si danno arie di verità scientifiche ma senza esserlo. Il problema della sanità piemontese non è solo essere oltre i parametri di compatibilità finanziaria ma anche che la sua produzione è calata del 3% senza una proporzionale riduzione dei costi e per giunta è aumentata la mobilità passiva verso altre Regioni (30 milioni solo nel 2013).
Questo vuol dire due cose:
· vi è tanto un problema di quantità di sistema e quindi di spesa ed è il problema principale della regione;
· quanto un problema di qualità di sistema e quindi di tutela ed è il problema dei cittadini.
La cosa difficile è conciliare le due cose. La riorganizzazione della rete ospedaliera, anche nella seconda delibera, è in pratica un intervento, a sistema fondamentalmente invariante, di “ospedalectomia”. Le indicazioni verbali delle due delibere sono eloquenti:riduzione dello standard dei posti letto ospedalieri accreditati a 3,7 posti letto per mille abitanti,adeguamento delle piante organiche in rapporto ad un tasso di ospedalizzazione pari a 160 per mille abitanti;riduzione dei posti letto in eccesso, soppressione di unità operative complesse, riconversione dei ricoveri ordinari in ricoveri diurni e i ricoveri diurni all’assistenza territoriale quindi assistenza ambulatoriale residenziale e domiciliare. Quindi le due delibere ragionano come se all’ interno del sistema sanitario piemontese vi fosse una superfetazione di posti letto, di unità complesse, di unità operative da ridurre o rimuovere mettendo in atto poi tutti le operazioni ricostruttive del caso (hub spoke, ospedali graduati per bacini di utenza ecc)
La Regione Piemonte si è sforzata di rassicurare in vario modo tanto i propri cittadini che i propri operatori ma a giudicare dalle proteste dei territori non è stata così convincente.Le loro rassicurazioni derivano da cose che si dovranno fare in un secondo tempo e si danno per scontate ma che scontate non sono dal momento che la nuova standardizzazione del numero dei posti letto, dovrà essere sostenuta da tutta una serie di atti di riforma quali riconversioni, un nuovo governo della domanda, il ripensamento dell’assistenza primaria, ecc.
Cioè il presupposto perché tutto funzioni è la contestualità tra la ridefinizione della rete ospedaliera e il riassetto dell’assistenza territoriale. Ma mentre tutta l’attenzione delle delibere è per la ospedalectomia sull’assistenza territoriale per ora vi sono solo enunciazioni. Le delibere sanciscono vistosamente la differenza tra norme performative e norme indicative.Le prime tagliano e ricuciono il sistema ospedaliero in essere (con la norma performativa si compie quello che si dice di fare producendo un fatto reale).
Le seconde invece, quelle che riguardano il territorio, si limitano ad asserire in modo non condizionale quello che si dovrebbe fare senza subordinare ciò che si dice di voler fare a degli standard, indicatori, criteri metodologici. Per cui tanto nella delibera che negli allegati la definizione del territorio all’indicativo ha il limite di essere molto… troppo generica. La questione viene rimandata ad atti successivi ma questo vuol dire che salta il principio di contestualità dichiarato con il rischio di creare una dolorosa fase di transizione fatta da abbandono, disfunzioni, tribolazioni per la gente, diseguaglianze di trattamento e soprattutto problemi di accesso ai servizi.
L’operazione quindi è concepita con la logica dei due tempi, prima si taglia e dopo si vedrà. “Contestualità”, non significa solo che il riordino dell’ospedale deve coincidere con il riordino del territorio ma sottolinea ontologicamente che ospedale e territorio sono due sottosistemi di un comune sistema sanitario e che quindi non vi può essere un riordino della parte senza una riforma del tutto. Contestualità quindi vuol direconcomitanza riformatrice nel senso delle “variazioni concomitanti” di Stuart Mill: si dia un obiettivo di compossibilità diritti/risorse e l’ospedale e il territorio quale sistema di diritti e di spesa….tutti i problemi di compossibilità causano variazioni nel primo e nel secondo e viceversa….dando forma ad un processo riformatore.
Trovo rischioso che ci si limiti ad un riordino ospedaliero senza accedere contestualmente ad un discorso più ampio di riforma del sistema nel suo complesso, dal momento che le concomitanze tra territorio e ospedale sono innegabili. La riduzione degli standard ospedalieri avviene a modello invariante di ospedale (l’hub spoke non è una riforma dei modelli ma solo la riproposizione di una classificazione che per altro pur con nomi diversi risale al 1968 cioè alla riforma Mariotti) per cui è probabile che parte della domanda sarà scaricata sul territorio ,a dicotomia invariante nei confronti dell’ospedale, senza che vi sia un territorio adeguato.
Il punto di fondo, che non va mai dimenticato, è che qualsiasi standard di posti letto è funzione del territorioper cui se il territorio non viene ripensato qualsiasi riduzione di standard rischia di essere una banale riduzione di assistenza. Se non si risolve questo problema di concomitanza, presumibilmente i problemi di mobilità cresceranno. Quanto al territorio (prima delibera punto 4,linee di indirizzo per lo sviluppo della rete territoriale) non c’è solo un problema di genericità, si intravedono vistose contraddizioni come quella tra l’idea di “rete territoriale” e il distretto definito come “macrostruttura” (sui limiti di questa concezione rimando alla parte 3 de “i mondi possibili della programmazione sanitaria(…) Mc Graw Hill 2012). Sorvolo le questioni che riguardano il lavoro, le professioni, le organizzazioni che ancora una volta sono visti come fantasmi incorporei come se non fossero “il servizio” che sono.
Concludo con quattro amichevoli suggerimenti:
· invertite l’ordine applicativo del riordino cioè partite dalla riorganizzazione del territorio al fine di rimodulare la funzione ospedaliera per non creare situazioni di abbandono;
· scrivete subito una nuova delibera performativa “adeguamento della rete territoriale a sostegno della rimodulazione della rete ospedaliera”;
· mettete mano ad un disegno di riforma complessivo del sistema che vada oltre la logica del riordino, dell’adeguamento, della rimodulazione e che affronti i problemi dei modelli, dei modi di essere, delle prassi, dei metodi, del lavoro… perché la sanità è fatta soprattutto da persone e non da cose;
· fate in modo che le persone…a partire dai cittadini….non siano “riordinati” nei loro bisogni di salute ma siano soggetti di riforma.
Buon lavoro.
Ivan Cavicchi
Ps: analoga analisi vale anche per il decreto n° 14 gennaio 2015 “riqualificazione e rifunzionalizzazione della rete ospedaliera-territoriale della regione Sicilia” (QS 26 gennaio 2015) per cui applicando la regola transitiva sussistono analoghi dubbi e valgono analoghe proposte.
Cosa significa prendersi cura della propria vita e di quella degli altri? Perchè siamo quello che facciamo e quello di cui abbiamo cura? Esiste una “passione per il bene”? Da Levinas ad Heidegger, da S. Giovanni ad Hanna Arendt esiste un’interrogazione costante su cosa significhi “prendersi cura” della vita, propria e di quella degli altri. Ma soprattutto “se ci prendiamo cura delle persone quello che accade nello scambio relazionale con l’altro diverrà parte di noi. Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere”. Libro emozionante questo di Luigina Mortari, Direttrice del Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona e dove insegna Epistemologia della ricerca qualitativa alla Scuola di Medicina e Chirurgia. Con un linguaggio preciso ma semplice e piano siamo immediatamente calati nella realtà del processo di cura che non significa parlare di Medicina o di Pedagogia, ma parlare della nostra vita di tutti i giorni, della passione per il bene che diventa un nuovo modo di interrogare se stessi e la propria vita.