Qualche anno fa, parlando con Ivan Cavicchi sullo stato della sanità in Piemonte, emersero alcune considerazioni che ancora oggi sono di grande attualità. Soprattutto quella che non abbiamo ancora imparato a porre in chiaro delle valutazioni di impatto socio-sanitario per comprendere gli effetti delle politiche sanitarie sulle popolazioni a cui si applicano. In sostanza, scrivere numeri sulle strutture ospedaliere o territoriali è semplice, ma prevedere i loro effetti reali sulle persone che esprimono bisogni di cure è altra cosa. La stessa determinazione a tavolino di standard sono astrazioni statistiche con poca evidenza scientifica: la “produzione” cala senza una proporzionale riduzione dei costi. E tutto ciò porta ad una importante divaricazione: da una parte un problema squisitamente della regione di quantità di sistema e quindi di spesa; dall’altra un problema che riguarda i cittadini che è quello di qualità del sistema e quindi di tutela dei bisogni delle persone.
La politica dovrebbe essere quello strumento in grado di conciliare quelle due cose. La scelta però è stata quella di scegliere di agire solamente da un lato del problema arrivando a compiere quella che Ivan ha chiamato “ospedalectomia” e cioè: riduzione dello standard dei posti letto ospedalieri; adeguamento al ribasso delle pianto organiche; soppressione di unità operative; riconversione dei ricoveri ordinari in ricoveri diurni e quindi dei ricoveri diurni in assistenza territoriale, residenziale e ambulatoriale a loro volta sempre meno finanziati e riversati sulle possibilità economiche delle famiglie, promettendo poi successivi atti di riforma e finanziamento che non hanno superato il livello dell’enunciazione. In breve lo schema logico è sempre lo stesso: prima si taglia, poi si vedrà.
Concetto ancora meglio espresso in un suo scritto dove ci ricorda che “il punto di fondo, che non va mai dimenticato, è che qualsiasi standard di posti letto è funzione del territorio, per cui se il territorio non viene ripensato, qualsiasi riduzione di standard rischia di essere una banale riduzione di assistenza. Se non si risolve questo problema di concomitanza, presumibilmente i problemi di mobilità cresceranno. Quanto al territorio non c’è solo un problema di genericità, si intravedono vistose contraddizioni come quella tra l’idea di “rete territoriale” e il distretto definito come “macrostruttura”.
Infine facciamo nostri quattro amichevoli suggerimenti che discendono da quanto detto:
· invertire l’ordine applicativo del riordino cioè partire dalla riorganizzazione del territorio al fine di rimodulare la funzione ospedaliera per non creare situazioni di abbandono;
· scrivere subito una nuova delibera performativa “adeguamento della rete territoriale a sostegno della rimodulazione della rete ospedaliera”;
· mettere mano ad un disegno di riforma complessivo del sistema che vada oltre la logica del riordino, dell’adeguamento, della rimodulazione e che affronti i problemi dei modelli, dei modi di essere, delle prassi, dei metodi, del lavoro… perché la sanità è fatta soprattutto da persone e non da cose;
· fare in modo che le persone non siano “riordinate” nei loro bisogni di salute ma siano soggetti di riforma.
E questa è solo una parte di quello che ci proponiamo di fare.
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