Esiste una riserva di mortalità che può essere immediatamente resa disponibile, strappata dal buio delle statistiche mediante un semplice atto che è quello di accogliere in una struttura protetta chi pure sceglie di compiere un atto che noi riteniamo riprovevole: iniettarsi una dose di droga. Non mi sembra difficile far comprendere come questa azione sia certamente la più importante in una scala di valori etici
Malgrado infatti ritenga che una vera e propria discussione imperniata su fondamenti etici sia al momento latitante, diminuire la mortalità in maniera significativa non può essere considerata solo una priorità dell’etica medica.
La discussione appare anche paradossale in quanto sembra che l’approccio alle dipendenze inizi e finisca semplicemente con questo presidio, facendo, a mio modo di vedere, torto a tutte quelle professionalità mediche, infermieristiche e di volontariato che tutti i giorni mettono in campo molte “armi” per affrontare il problema. Non credo si possa affermare inoltre che sia meglio permettere il “buco” dietro un cespuglio di un parco rispetto ad una struttura che potrebbe diventare anche uno snodo fondamentale semplicemente per venire a contatto con le storie di queste persone.
All’inizio della mia esperienza medica svolsi per circa un anno servizio in un SERT dove si somministrava il famigerato metadone. Non entro qui nell’evoluzione che ha subito questo tipo di approccio se non per dire che nel tempo ha anch’esso avuto delle positività non trascurabili per ciò che riguarda la stessa mortalità e la morbilità di queste persone. Ma un’esperienza che mi è rimasta impressa è che quel luogo, quella struttura ha rappresentato per molti famigliari di queste persone uno dei pochi momenti in cui cercare un seppur minimo contatto. Non c’è nulla di romantico in questo, ma non posso dimenticare l’angoscia che mi veniva dichiarata nel non sapere dove quel figlio o fratello in quel momento si bucava, in quali condizioni era e se poteva essere trovato da qualcuno in tempo in caso di overdose. E quale sollievo nel sapere che comunque era vicino ad un’ospedale, ad una struttura che poteva dare un eventuale soccorso. E quale etica risultava superiore nel vedere che qualcuno, affettivamente vicino, poteva alla fine aiutare quella persona barcollante e confusa ancora per una volta, tentando di stargli vicino. Quale etica sociale, politica è superiore a questa?
Trovo francamente poco comprensibile chi si schiera contro questa possibilità, anche solo per provarla in via sperimentale, denunciando che questa rappresenterebbe una debolezza della società stessa che attraverso questa modalità darebbe un consenso morale alla possibilità di usare sostanze stupefacenti.
Che sciocchezza è questa? E come si può affermare che le risorse impiegate in questo modo sarebbero meglio impiegate per un cardiopatico o altro tipo di persone? La vita ha diversi pesi a seconda delle storie che ognuno di noi si trova, nel bene o nel male, a percorrere? Strappare dalla morte, se possibile, un insieme di persone ha meno valore a seconda dei motivi per cui si trova in quella situazione? Tra le tante sentenze care ai medici ne ricordo una spesse volte risultata utile: Primum vivere, deinde philosophari.
Malgrado infatti ritenga che una vera e propria discussione imperniata su fondamenti etici sia al momento latitante, diminuire la mortalità in maniera significativa non può essere considerata solo una priorità dell’etica medica.
La discussione appare anche paradossale in quanto sembra che l’approccio alle dipendenze inizi e finisca semplicemente con questo presidio, facendo, a mio modo di vedere, torto a tutte quelle professionalità mediche, infermieristiche e di volontariato che tutti i giorni mettono in campo molte “armi” per affrontare il problema. Non credo si possa affermare inoltre che sia meglio permettere il “buco” dietro un cespuglio di un parco rispetto ad una struttura che potrebbe diventare anche uno snodo fondamentale semplicemente per venire a contatto con le storie di queste persone.
All’inizio della mia esperienza medica svolsi per circa un anno servizio in un SERT dove si somministrava il famigerato metadone. Non entro qui nell’evoluzione che ha subito questo tipo di approccio se non per dire che nel tempo ha anch’esso avuto delle positività non trascurabili per ciò che riguarda la stessa mortalità e la morbilità di queste persone. Ma un’esperienza che mi è rimasta impressa è che quel luogo, quella struttura ha rappresentato per molti famigliari di queste persone uno dei pochi momenti in cui cercare un seppur minimo contatto. Non c’è nulla di romantico in questo, ma non posso dimenticare l’angoscia che mi veniva dichiarata nel non sapere dove quel figlio o fratello in quel momento si bucava, in quali condizioni era e se poteva essere trovato da qualcuno in tempo in caso di overdose. E quale sollievo nel sapere che comunque era vicino ad un’ospedale, ad una struttura che poteva dare un eventuale soccorso. E quale etica risultava superiore nel vedere che qualcuno, affettivamente vicino, poteva alla fine aiutare quella persona barcollante e confusa ancora per una volta, tentando di stargli vicino. Quale etica sociale, politica è superiore a questa?
Trovo francamente poco comprensibile chi si schiera contro questa possibilità, anche solo per provarla in via sperimentale, denunciando che questa rappresenterebbe una debolezza della società stessa che attraverso questa modalità darebbe un consenso morale alla possibilità di usare sostanze stupefacenti.
Che sciocchezza è questa? E come si può affermare che le risorse impiegate in questo modo sarebbero meglio impiegate per un cardiopatico o altro tipo di persone? La vita ha diversi pesi a seconda delle storie che ognuno di noi si trova, nel bene o nel male, a percorrere? Strappare dalla morte, se possibile, un insieme di persone ha meno valore a seconda dei motivi per cui si trova in quella situazione? Tra le tante sentenze care ai medici ne ricordo una spesse volte risultata utile: Primum vivere, deinde philosophari.
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