(…) Dunque lo psicoanalista è al tempo stesso medico e medicina. La formazione (il cosiddetto training) lunga e rigorosa, articolata fra teoria e clinica, è basata proprio sulla peciliarità che ciascuno di noi, prima di diventare terapeuta, deve fare il paziente. Cioé si fa curare, imparando il mestiere sul suo proprio inconscio. L’analisi personale ha lo scopo di vagliare il progetto del candidato, di confrontarlo con le sue parti malate e sofferenti (che in variabile misura ci sono sempre in coloro che decidono d’intraprendere tale atipica professione), anziché avallare il “cortocircuito” di porsi aprioristicamente dalla parte di chi cura. La qualità minimale, ma essenziale dell’analista è la capacità di sopportare l’angoscia: la propria, come premessa indispensabile per poi reggere quella degli altri. Ciò comporta la rinuncia – per quanto è umanamente possibile – alle difese (rimozione, diniego, scissione, proiezione…) che ostacolano la circolazione inter e intrapsichica di pensieri ed affetti; e particolarmente la rinuncia a quelle che potremmo chiamare “difese professionali”, al servizio delle quali possono andare i livelli più evoluti del pensiero: l’autoreferenzialità delle argomentazioni, l’autogiustificazione del proprio operare, il proiettare nell’altro le proprie parti malate per poi soccorrerle.
Fin dall’epoca di Freud, d’altronde, amiamo dire che nel nostro mestiere etica e tecnica coincidono, come sforzo verso il riconoscimento dell’alterità: riconoscere l’altro nella sua diversità senza odiarlo. Ciò serve a metterci in guardia dalla tentazione di prendere il posto dell’”ideale dell’Io” dei pazienti; dal cercare in essi sotterranee gratificazioni narcisistiche; nonché dalla pretesa onnipotente di poter guarire tutti, senza al consapevolezza dei limiti dei nostri strumenti e della nostra persona.
Non dobbiamo illuderci che sia sufficiente una cultura fatta solo sui libri per potersi cimentare nella dimensione clinica della cura dei pazienti. Ad esempio una “consulenza filosofica” (oggi molto in auge) aiuta a pensare, stimola allo studio; ma non sarebbe inutile se non addirittura nociva nel caso di una nevrosi, perché fa perdere tempo e collude con la resistenza tanto comune ad ammettere di essere psicologicamente malati. (…)
Simona Argentieri in: Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia, Zoja; “In difesa della psiconalisi”; Einaudi, 2013
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