Condivido tuttora, nonostante l’attuale diaspora della sinistra, la domanda che Claudio Fava aveva formulato a Chianciano con chiarezza: “Abbiamo paura di impegnarci nella costruzione di una sinistra che sappia finalmente elaborare le culture del comunismo e del socialismo per proporne una sintesi originale? Qualcuno di noi è così miope da vivere questa sfida culturale e politica, che forse prenderà il tempo e lo spazio di una generazione, come un tradimento ai sacri luoghi delle nostre identità? O pensiamo davvero che tra dieci o vent’anni ci saranno ancora, in questo paese, una sinistra cosiddetta “socialdemocratica” e una sinistra cosiddetta “comunista”, ciascuna gelosa custode delle proprie liturgie e della propria storia? Un nuovo soggetto politico di sinistra non soffocato dall’ornamento dei propri aggettivi è solo una favola ce ci raccontiamo o è realmente una sfida che ci mette tutti (tutti!) in discussione?”
Penso ancora che il dibattito su come iniziare a costruire gli strumenti che possono contrastare l’offensiva travolgente che il capitalismo del XXI secolo sta portando avanti contro i popoli della Terra dovrebbe avere la priorità. Temo invece che l’obiettivo della ricostruzione di una sinistra senza aggettivi non sia ancora percepito nella sua urgenza. Certo non si potrà affrontarlo finché ognuno intende presentarsi all’appuntamento con la pretesa di usare la propria cassetta di attrezzi ereditata dal bisnonno.(…)
Io credo che continueremo a pestare acqua nel mortaio se non si partirà dalla consapevolezza che il capitalismo del XXI differisce da quello del XX secolo altrettanto radicalmente, se non di più, di quanto il capitalismo del XX differiva da quello del XIX. Dovremmo cominciare con il ricordare che Il Capitale non è caduto dal Cielo, ma è stato il frutto delle ricerche di un Marx che era andato in Inghilterra per studiare il processo di produzione della ricchezza nel paese capitalistico allora più avanzato al mondo quando ancora l’agricoltura era l’attività di gran lunga dominante nell’economia. E dovremmo anche ricordare che il fondatore del marxismo ha dedicato anni ad impossessarsi delle conoscenze indispensabili a capire le basi scientifiche e tecnologiche (ricordiamoci le pagine sulla spoletta dei telai di Manchester), oltre che quelle economiche, del processo di produzione industriale delle merci materiali sul quale si sarebbe fondato per più di un secolo il processo di accumulazione del capitale.
E ricordiamo anche che negli anni più duri e bui della dittatura fascista Antonio Gramsci si dedicava allo studio della forma più avanzata del capitalismo – il fordismo americano – sapendo bene che non gli sarebbe servito a uscire dal carcere di Turi nel quale era rinchiuso, ma che quella forma di organizzazione produttiva avrebbe dominato il mondo per un altro secolo.
Oggi nessun esponente politico della sinistra (o di quello che era il centrosinistra), salvo pochissime eccezioni, avverte simili curiosità. Per non parlare degli economisti della nostra area che si dividono tra quelli che pretendono di fornire ognuno la propria interpretazione – ovviamente quella giusta – di ciò che diceva Marx e quelli che, vantandosi di ignorare programmaticamente che cosa si produce, come si produce e per chi si produce, si occupano soltanto di PIL e di come si può ridurre il debito.
Perché, oggi che il capitalismo ha vinto in tutto il mondo, non cerchiamo anche noi di guardare cosa c’è di nuovo là fuori? Proverò in questo breve testo a elencare quattro differenze, secondo me essenziali, tra la società capitalistica del XX e quella del XXI secolo sulle quali bisognerebbe costruire un discorso comune.
La prima differenza investe il modo di produzione della ricchezza. Essa è rappresentata dalla tendenza, suffragata da fatti sotto gli occhi di tutti, a fondare sempre più la formazione del profitto nel processo di accumulazione del capitale sulla produzione di merci non tangibili (non solo conoscenza, informazione, saperi, formazione, ma anche comunicazione, intrattenimento e addirittura modelli di vita). Non voglio dire che la produzione di merci materiali sia diventata inessenziale o quantitativamente secondaria, ma insisto che la produzione delle merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni crescenti della popolazione umana è sempre più impregnata in ogni suo interstizio e resa concretamente possibile da una sempre maggiore e indispensabile componente non tangibile di conoscenza.
L’obiettivo principale del capitalismo odierno è dunque di negare la differenza sostanziale tra la natura dei beni materiali e quella dei beni immateriali, nascondendo la proprietà fondamentale di questi ultimi che, contrariamente a ciò che accade per i beni materiali, è quella di poter essere goduti da parte di un “consumatore” lasciando intatta la possibilità che innumerevoli altri facciano altrettanto. Il “consumatore” dunque in realtà non “consuma” il bene di cui fruisce che può continuare ad essere a disposizione di tutti.
Se questa proprietà fosse socialmente riconosciuta come “naturale” il capitalismo semplicemente crollerebbe. Non è un caso, tanto per fare un esempio, che Bill Gates ha dichiarato che le pratiche open source sono il peggior nemico dell’economia di mercato. E’ per questo che i brevetti e i diritti di proprietà intellettuale, giustificati originariamente come giusta ricompensa all’ingegno e alla creatività degli autori, sono diventati in realtà in massima parte rendite di capitale estorte in un mercato artificiosamente costruito per rendere scarsi beni che scarsi non sono.
La differenza non investe soltanto la fase del “consumo”, ma anche quella della produzione. Mentre per l’operaio della fabbrica di merci materiali (nelle sue fasi successive dal fordismo al toyotismo) la categoria marxiana di lavoro astratto, misurabile quantitativamente, rappresentava tutto sommato la sostanza del rapporto capitale lavoro (e comunque stava alla base dell’analisi di Sraffa sulla “produzione di merci a mezzo di merci”), per il lavoratore della fabbrica delle parole (folgorante a questo proposito il film di Virzì sulla vita degli operatori dei call-center che vale più di tanti corposi saggi) la categoria della qualità caratterizza inevitabilmente il lavoro di ogni individuo. La differenza é sostanziale. Nel primo caso gli operai si sentivano oggettivamente e soggettivamente uguali, e dunque solidali tra loro. Si contrapponevano al capitale attraverso sindacati e partiti di classe. Nel secondo ogni lavoratore compete con gli altri con tutti i mezzi per sopravvivere. L’individualismo e la solitudine sono la regola. Questo spiega tante cose: in primo luogo la vittoria di Berlusconi. Il discorso andrebbe approfondito, e io non sono in grado di farlo: mi stupisce però che chi dovrebbe saperne più di me non lo faccia.
La seconda differenza fondamentale è la scoperta dei limiti fisici dell’ecosistema terrestre. Sono rimaste inascoltate, e addirittura accusate di terrorismo intellettuale, fino a due o tre anni fa le grida d’allarme (che risalgono agli anni 70) dei primi ambientalisti, intesi a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sui sintomi dell’incipiente degrado ambientale che avrebbe investito il pianeta, nonostante che esse siano state via via rafforzate per trent’anni da fatti incontrovertibili e da analisi sempre più approfondite e documentate.
Per rendersi conto della totale incapacità dello stesso establishment scientifico di percepire la gravità della situazione, va ricordato che duecentosessanta scienziati di grande prestigio, fra i quali molti premi Nobel, indirizzarono ai capi di Stato, riuniti a Rio de Janeiro nel 1992 per affrontare i problemi del degrado dell’ecosistema terrestre, un solenne appello – con l’altisonante titolo di Appello di Heidelberg – inteso a metterli in guardia, non dai pericoli emergenti in conseguenza del crescente inquinamento dell’aria del territorio e delle acque, ma addirittura – udite, udite – dallo “spettro dell’emergere di una cultura ecologica” vista come “ideologia irrazionale che si oppone al progresso della scienza e nuoce allo sviluppo economico e sociale” e per diffidare le “autorità responsabili del destino del nostro pianeta dal prendere qualunque decisione fondata su argomenti pseudoscientifici.”
Ci sono voluti altri quindici anni e più perché gli scienziati dell’IPCC (l’organismo delle Nazioni Unite per lo studio del cambiamento climatico) arrivassero alla conclusione – ormai finalmente condivisa dalla maggior parte della comunità scientifica internazionale (a parte gli ultimi “giapponesi” rintanati nella foresta, particolarmente numerosi in Italia), e fatta propria anche dai maggiori esponenti politici della Comunità Europea – che interventi concreti massicci e urgenti sono necessari per contrastare l’aumento dell’effetto serra e della temperatura globale del pianeta e impedire le sue conseguenze devastanti.
Conseguenze del resto previste e quantificate nel notissimo rapporto redatto dal principale consulente economico di Tony Blair, Nicholas Stern, nel quale si prevede che, se si continua a non intraprendere alcuna azione significativa per ridurre l’emissione di CO2 nell’atmosfera, i danni del riscaldamento globale potranno arrivare nel giro di dieci, al massimo venti anni, a un tasso annuo tra il 5% e il 20% del PIL globale. Una cifra da confrontare con una spesa attorno all’uno percento in misure preventive da iniziare subito.
In sostanza, alla base della crisi ambientale c’è l’appropriazione privata di quell’immenso bene comune costituito dalle infinite risorse dell’ecosistema terrestre che si aggiunge all’appropriazione delle materie prime e delle fonti di energia che ha caratterizzato per secoli la colonizzazione del pianeta da parte delle potenze occidentali (con i genocidi che hanno accompagnato la loro “missione civilizzatrice”). L’incomprensione da parte della tradizione comunista di questo processo costituisce purtroppo una pesante palla al piede della sinistra che contribuisce a comprometterne il necessario processo unitario.
La terza differenza riguarda la scienza. Nell’immaginario collettivo la scienza ha assunto un peso enorme, carico da un lato di aspettative, e dall’altro di paure. Per capirne l’origine occorre rendersi conto che anch’essa ha subito un profondo mutamento. Esso consiste nel suo passaggio dal modello galileiano e newtoniano di conoscenza delle proprietà e della struttura della materia inerte, fondato sulla ricerca delle leggi generali e immutabili della natura che ne sarebbero la causa prima, al modello di conoscenza delle proprietà della materia vivente e della mente umana fondato sul riconoscimento dell’unicità di ogni processo nel quadro dei principi dell’evoluzione darwiniana e dell’autorganizzazione dei sistemi complessi. E’ importante sottolineare che si tratta di una svolta epistemologica radicale. Fino agli ultimi decenni del secolo scorso infatti il modello di scientificità di queste ultime era ancora quello delle scienze della materia inerte.
Ovviamente questo non vuol dire che i processi della vita e della mente umana non siano vincolati dalle leggi della fisica e della chimica, ma soltanto che esse non sono sufficienti a ricostruirne dal basso le proprietà. E quindi che inevitabilmente occorre tenere conto degli aspetti aleatori e della dipendenza dal contesto dei fenomeni che li coinvolgono, perché le loro proprietà non sono completamente ricostruibili a partire da quelle dei loro elementi costituenti, né sono indipendentI da ciò che sta attorno a loro. A titolo di esempio basta pensare che in circostanze locali e temporali diverse, geni diversi possono innescare la produzione della stessa proteina e proteine diverse possono essere prodotte dallo stesso gene. Non è così per gli atomi e per le molecole della materia inorganica. La svolta di fine secolo istituisce dunque una differenza epistemologica fra le scienze della materia inerte e quelle della materia vivente e della mente, che viene sistematicamente ignorata sia dall’establishment scientifico che dai detentori del potere economico e politico
Non c’è più dunque una scala gerarchica di attività separate e distinte che vede al vertice una scienza “pura” come scoperta disinteressata e autonoma delle leggi generali della natura, dalla quale nasce una tecnologia che ne applica i risultati per creare oggetti destinati a fini utili, e a sua volta li consegna all’economia perché investa le risorse necessarie a immetterli nel modo più efficiente e profittevole sul mercato. C’è invece una catena circolare di effetti che retroagiscono sulle loro cause. Le tre sfere sono ormai strettamente intrecciate e il perseguimento del massimo profitto nel più breve tempo possibile è il motore dello sviluppo del complesso delle tecnoscienze integrate nel sistema delle imprese multinazionali che dominano i settori fondamentali della società globale: alimentazione, energia, salute, armi, intrattenimento e comunicazioni.
Molti scienziati seri e disinteressati, impegnati in un lavoro di ricerca “di base”, che non si pone l’obiettivo immediato di ottenere risultati da immettere sul mercato, negano che questa svolta sia così radicale e sostanziale, e auspicano comunque che la barriera tra scienza e tecnologia venga ripristinata e rafforzata. Secondo me si tratta di una illusoria aspirazione a tornare ai bei tempi passati, che ignora il carattere irreversibile della trasformazione che ha investito il tessuto sociale negli ultimi due o tre decenni. Una trasformazione che non solo deriva dalla differenza epistemologica tra la scienza delle leggi e le scienze dei processi alla quale ho appena accennato, ma che ha anche una causa con una data d’inizio precisa: l’anno 1980,
E’ la data in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deliberato che gli organismi geneticamente modificati possono essere brevettati. Da quel momento in poi si brevetta tutto: qualsiasi pezzo di materia vivente e qualunque idea venga partorita da una mente umana. Ci sono ormai anche le vignette, sulle riviste scientifiche come Science, sugli scienziati che oggi brevettano le cose che vorrebbero fare prima di trovarle, con un’inversione totale rispetto a quello che era la scienza quando da giovane ho iniziato a occuparmene. Nessuno dei miei colleghi, di qualunque disciplina, si sognava allora di brevettare un risultato “scientifico”. Persino gli scopritori della fissione nucleare non pensarono mai, tanto per fare un esempio, di poter brevettare gli elementi transuranici che avevano “prodotto” in laboratorio.
Oltre alla differenza sul piano epistemologico che abbiamo appena discusso, si è prodotta con il passaggio dalle scienze della materia inerte a quelle della vita e della mente una differenza radicale sul piano dell’etica professionale degli scienziati. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull’uomo. Nel primo caso il lecito può coincidere con l’utile (anche la distinzione “per chi” aprirebbe tuttavia a rigore problemi valoriali), nel secondo il lecito dovrebbe per lo meno dipendere anche da una valutazione di natura etica: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi dalla conoscenza. Nasce dunque il problema della ricerca di un corretto rapporto fra conoscenza e valori, cioè fra la costruzione di una rappresentazione razionale della realtà sensibile adeguata ai bisogni dell’umanità e il perseguimento di “retti” comportamenti individuali e collettivi.
Lo sgretolamento della barriera tra fatti e valori sta accendendo un confliutto per l’egemonia nella società fra chi ritiene che soltanto perseguendo un crescente dominio razionale sui fatti e sulle relazioni che li connettono sia possibile affrontare i problemi della vita umana e della convivenza sociale e chi pretende di essere depositario e amministratore di valori assoluti di origine trascendente in grado di regolamentare ogni aspetto dei comportamenti umani.
Ma la scoperta che c’è qualche cosa nella scienza che implica giudizi di valore – la differenza fra il bene e il male, fra ciò che si può fare e ciò che non si può fare – porta la religione ad appropriarsi del diritto di decidere in merito con la scusa che la religione ha il monopolio della morale. Sappiamo tutti che questa è la pretesa del papa Benedetto XVI. E’ una intrusione indebita, come hanno ampiamente dimostrato pensatori come Jurgen Habermas, Hans Jonas, e giuristi come Gustavo Zagrebelski.
Deve essere tuttavia ben chiaro che la battaglia per l’autonomia della scienza contro l’ingerenza dei dogmi religiosi non può essere condotta in nome di una astratta scienza galileiana che ignora l’intreccio tra conoscenza e valori che caratterizza oggi le scienze della vita e della mente. Se si pretende che in tre secoli la scienza non sia cambiata si perde in partenza. Se invece si riconosce che l’intreccio fra conoscenza e valori è nelle cose, diventa legittimo, anzi necessario, rifiutarsi di “ritagliarne” i temi, come si dice oggi, “eticamente sensibili” per cederne la competenza a un unico soggetto esterno, per di più autoritario per natura, come il capo della Chiesa cattolica.
La formazione del consenso sul lecito e l’illecito deve invece coinvolgere, nelle forme da costruire insieme, una molteplicità di soggetti, aperti al dialogo e al confronto reciproco, portatori di tradizioni culturali, istanze sociali, esperienze del passato e progetti per il futuro in grado di presentare punti di vista diversi diffusi, ma ignorati dai meccanismi di decisione attualmente adottati senza discussione, con affrettata arroganza e incoscienza dai detentori dei poteri e degli interessi più forti.
E’ questa l’unica via percorribile per cercare di ridurre da un lato i rischi di conseguenze, a priori imprevedibili e a posteriori deprecabili, di decisioni unilaterali autoritariamente imposte, e dall’altro per contrastare la dilagante diffusione nell’opinione pubbiica di paura, diffidenza e sfiducia nei confronti della scienza e della ragione.
In sostanza il capitalismo del XXI secolo si sta dimostrando incapace di far fronte alle emergenze che si profilano all’orizzonte in tempi brevi rispetto alla durata della vita umana. Una incapacità messa in evidenza dal clamoroso fallimento del recente vertice della FAO, convocato d’urgenza per discutere della prospettiva, rivelatasi all’improvviso nel giro di pochi mesi come imminente, della morte per fame di decine, forse centinaia di milioni di abitanti del pianeta a causa della crescita vorticosa dei prezzi dei cereali base per l’alimentazione umana.
Una incapacità ribadita ancora più recentemente dalla indecorosa farsa dell’ultimo vertice dei G8, concluso senza alcun impegno per l’immediato domani ma con una promessa – una spudorata presa in giro del mondo intero – priva di alcuna base concreta secondo la quale nel 2050 le emissioni di CO2 saranno dimezzate. Come se non si sapesse benissimo che sarebbe già tardi cominciare da subito a prendere le misure drastiche necessarie. Questi fallimenti. che rispecchiano l’intreccio di tutte le questioni cruciali dei prossimi vent’anni – l’alimentazione, l’energia, il clima, la pace e la guerra, le migrazioni – sono il segnale che il sistema economico del capitale globale sta correndo senza controllo verso il baratro.
Di questo baratro parla un libro recente di Jacques Attali intitolato Breve storia del futuro. Senza entrare in dettagli accenno soltanto che l’autore vede prossima la crisi alla quale va incontro l’attuale impero americano. Il cammino percorso nel secondo dopoguerra verso l’estensione del mercato e della democrazia rischia di arrivare al suo termine nel giro di due o tre decenni. “L’acqua e l’energia si faranno più scarse, il clima verrà posto in pericolo le disuguaglianze e le frustrazioni si aggraveranno, i conflitti si moltiplicheranno, si innescheranno grandi movimenti di popolazione.” Il mondo diverrà provvisoriamente policentrico, un “iperimpero”, controllato da una striminzita decina di potenze regionali”. Le recenti vicende della Georgia ne sono un segnale inequivocabile.
Seguirà – sempre secondo l’analisi di Attali, un periodo di “iperconflitto” caratterizzato da scontri drammatici, catastrofi ecologiche ed umanitarie. “Ci batteremo per il petrolio per l’acqua per conservare un territorio per lasciarlo, per imporre una fede, per combatterne un’altra, per distruggere l’Occidente, per far prevalere i suoi valori. Prenderanno il potere dittature militari, confondendo eserciti e polizie.”
Infine, tuttavia “a meno che l’umanità non scompaia prima sotto un diluvio di bombe, né l’impero americano, né l’ iperimpero né l’iperconflitto saranno più tollerabili.” E qui arriva la parte secondo me più interessante. “Nuove forze altruiste e universaliste, già attive oggi, prenderanno il potere a livello mondiale, sotto l’imperio di una necessità ecologica, etica, economica, culturale e politica. Queste forze condurranno progressivamente a un nuovo equilibrio questa volta planetario, tra il mercato e la democrazia: l’ “iperdemocrazia”.
“Istituzioni, mondiali e continentali, organizzeranno allora – prosegue Attali – grazie alle nuove tecnologie, la vita collettiva. Porranno dei limiti all’artefatto commerciale alla modificazione della vita e alla valorizzazione della natura, favoriranno la gratuità, la responsabilità, l’accesso al sapere. Renderanno possibile la nascita di una ‘intelligenza universale’, mettendo in comunicazione le capacità creatrici di tutti gli esseri umani, per superarle. Si svilupperà una nuova economia, detta ‘relazionale’ producendo servizi senza cercare di trarre profitti, in concorrenza con il mercato.”
Non intendo qui discutere i tempi e i modi di questi scenari, che ovviamente posssono essere messi in discussione e contestati, nel metodo e nel merito. Sottolineo tuttavia che il testo di Attali va incontro all’esigenza, individuata con chiarezza fin dalla fine del secolo scorso dal filosofo Hans Jonas di fondare una nuova deontologia professionale di tutti coloro – scienziati, tecnologi, economisti, politici – che devono prendere decisioni destinate ad avere conseguenze profonde sulla vita delle donne e degli uomini che vivranno su questa Terra nei prossimi anni “sull’obbligo morale di prefigurarci e di approfondire le possibilità ipotetiche che il nostro oggi, così gravido di conseguenze, sotto molti aspetti calcolabili, porta in grembo”.
Il valore di queste prefigurazioni, proprio perchè non si tratta di previsioni certe e di scadenze fissate, sta infatti nella possibilità di fare qualcosa perché se ne evitino gli scenari più catastrofici e se ne anticipino quelli “a lieto fine”. Emerge infatti in modo chiaro che i primi sono frutto della concezione dell’uomo e della società, caratteristica della cultura della destra, oggi dominante. E’ una concezione fondata da un lato sulla teorizzazione del dominio dei forti sui deboli, sulla diffidenza di ognuno verso gli altri e sulla divisione della società tra vincenti e perdenti, con la conseguente competizione sfrenata tra gli individui per entrare a far parte dei primi calpestando i secondi. Dall’altro fondata sull’idolatria del PIL come unica misura del benessere e della ricchezza, sull’ossessiva coazione al consumo di beni sempre più sofisticati e inquinanti, con la marginalizzazione, fino alla eliminazione fisica, della massa dei non consumatori, e sull’illusione della sostituibilità delle relazioni emotive ed affettive fra esseri umani con l’acquisto di merci che ne dovrebbero svolgere le stesse funzioni. E’ una concezione, infine, fondata sulla determinazione dei potenti a imporre questi “valori” con qualunque mezzo, incluse le armi più letali, a tutto il genere umano.
La realizzazione degli scenari “a lieto fine” richiederebbe invece la diffusione e l’affermazione nella società di valori antitetici. In una parola, richiederebbe l’affermazione dei valori che hanno caratterizzato gli ideali del socialismo e del comunismo. Non nascondiamoci però che il crollo dell’URSS e dei regimi che per decenni hanno rappresentato il “comunismo” e i suoi ideali nel mondo costituisce un fardello così pesante sulle spalle della sinistra, da minare alla base le prospettive di successo di ogni nuovo soggetto politico che si richiami a quell’esperienza storica.
Tuttavia nemmeno gli strumenti teorici e pratici che hanno permesso nel secondo dopoguerra alle forze di tradizione socialista – una tradizione tuttavia fatta propria in Italia anche dai comunisti impegnati nella “via italiana al socialismo” – di realizzare la costruzione e il mantenimento di quel sistema di servizi, di tutele previdenziali e di diritti che caratterizzano il welfare state, risultano oggi in grado di affrontare i problemi che incombono. E’ infatti da trent’anni che nei paesi anglosassoni – dove erano nate con Roosevelt e Beveridge – hanno cominciato a crollare le istituzioni del welfare sotto i colpi di Reagan e della Thatcher, con la copertura teorica di Milton Friedman, e si è andata realizzando la trasformazione del capitalismo dalla sua fase “democratica” a quella autoritaria che Robert Reich chiama Supercapitalismo. In questa fase ogni diritto dei cittadini a fruire di un servizio o a godere di garanzie e protezioni è sostituito dall’accesso al mercato dei soli consumatori in grado di acquistarli. L’uguaglianza, almeno in linea di principio, dei cittadini è sostituita dalla loro stratificazione sociale in base alle risorse economiche di cui dispongono. Questa trasformazione si è estesa successivamente agli altri paesi europei e, da noi, nella sua forma più becera, con il berlusconismo.
Sono dunque proprio le forme e il concetto stesso di welfare, che vanno ricostruite dal basso tenendo conto dei radicali cambiamenti della società. Riconoscere la vetustà degli strumenti pratici e teorici delle tradizioni del socialismo e del comunismo non è dunque una forma di opportunismo, ma un giudizio realistico di inadeguatezza rispetto al fine di contrastare l’avverarsi degli scenari peggiori previsti da Attali, (e non solo da lui).
Qualcuno spera tuttavia che gli strati popolari colpiti dal peggioramento delle proprie condizioni di vita, dall’emarginazione sociale ed economica e dalla perdita di fiducia nelle possibilità di un futuro migliore per sé e per i propri figli, troveranno autonomamente gli strumenti, i mezzi e le energie umane per contrapporre al disegno del capitale forme di autoorganizzazione di ispirazione socialista. La storia ci insegna tuttavia che, senza la presenza attiva di una minoranza di sinistra portatrice di un progetto credibile, la disperazione senza speranza conduce invece a destra.
E nemmeno le catastrofi, piccole o grandi, alle quali il mondo andrà incontro se continua così, porteranno a correzioni automatiche della politica economica nella direzione giusta. Ce lo ha spiegato Naomi Klein nel suo libro Shock Economy, nel quale documenta come proprio le catastrofi naturali siano un’occasione per il capitale di spazzar via gli ostacoli alla sua corsa, eliminando socialmente e addirittura fisicamente, i poveri e i diseredati. “Siamo finalmente riusciti – ha dichiarato per esempio un parlamentare repubblicano dopo l’uragano Katrina – a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Non sapevamo come fare, ma Dio l’ha fatto per noi.”
La strada è dunque tutta in salita. Ma non si parte da zero. La situazione di oggi potrebbe essere simile a quella che ha portato alla fine dell’Ottocento alla nascita delle prime organizzazioni degli operai e dei braccianti: società di mutuo soccorso, cooperative, banche popolari, e successivamente anche sindacati e partiti. Ci sono oggi pratiche, esperienze, forme organizzative già presenti nelle pieghe del tessuto sociale che, sia pure minoritarie, coinvolgono milioni di uomini e donne di buona volontà in tutto il mondo, ma potrebbero diventare dominanti. Per esempio lo sviluppo di relazioni tra individui mutuamente vantaggiose ma non dirette alla realizzazione di profitto; la pratica di forme di lavoro in cooperazione finalizzate al raggiungimento di obiettivi comuni; la formazione del consenso sulle decisioni che comportano vantaggi e svantaggi tra soggetti diversi; la composizione dei conflitti tra portatori di interessi differenti; la gestione di beni comuni nell’interesse degli appartenenti a una stessa collettività.
O ancora si potrebbe imparare a estendere anche ad altri settori della produzione di merci non tangibili lo scontro che ormai da due o tre decenni contrappone nelle tecnologie dell’informatica da un lato i sostenitori delle pratiche dell’open source e del free software (che tuttavia differiscono significativamente, secondo i rispettivi sostenitori, negli obiettivi e nei metodi) e dall’all’altro Bill Gates e la sua filosofia del software di proprietà privata. In sostanza occorre reintrodurre nel processo di produzione della ricchezza la classe dei “beni comuni”, scomparsa o quasi dall’economia da quando il capitale ha cominciato nell’Inghilterra del ‘600 ad appropriarsi delle terre comunali con le enclosures.
Anche in questo caso, tuttavia, bisogna non cadere nella trappola dell’ottimismo tecnologico che porta ad attribuire alla rivoluzione digitale, con le strutture reticolari alla quali ha dato origine e per le possibilità di connessione istantanea tra gli individui che ha assicurato, la capacità di instaurare di per sé forme più estese e capillari di democrazia partecipata.
In particolare Carlo Formenti, in un recentissimo libro (Cybersoviet), mette in guardia la sinistra dall’abbracciare l’illusione che la “democratizzazione dei consumi”, celebrata dai profeti del Web 2.0 non prelude a una “presa del potere” da parte dei produttori/consumatori, bensì all’espropriazione capitalistica dell’intelligenza collettiva generata dalla cooperazione spontanea e gratuita di milioni di donne e uomini.
Più ottimista si mostra tuttavia Mariella Berra che, nel suo bel libro Sociologia delle reti telematiche prospetta la possibilità che “il dono e la cooperazione possano idealmente porsi come il presupposto naturale per la crescita di una nuova economia che utilizzi Internet e più in generale il sistema socio-tecnico delle reti come luogo di diffusione e di scambio”. “Nella rete – prosegue infatti questa autrice – il soggetto non solo agisce come un attore razionale che massimizza le sue utilità individuali, ma, grazie alle estese e reversibili relazioni di scambio a cui partecipa, si trova a cooperare nella produzione di beni pubblici.”
E ancora, ad esempio, esiste secondo Giorgio Ruffolo (che riporta i risultati degli studi degli economisti del Centro Hypermedia dell’Università di Westminister), la possibilità che l’esplosione del Web possa “aprire nuove prospettive a una economia della reciprocità, libera dai vincoli sia del mercato che dello Stato”. In alternativa alla privatizzazione di ogni bit prodotto, e alla conseguente necessità di assicurarne il diritto di proprietà moltiplicando polizie e tribunali, lo Stato potrebbe “assumere il compito di fornire l’infrastruttura della rete Internet, non più finanziata dalla pubblicità… attraverso tasse che la collettività decide democraticamente per massimizzare il bene pubblico dell’informazione.” In tal caso – prosegue - “la libera circolazione dell’informazione fornita dalla rete, anzichè costituire un danno per i fornitori privati soddisfa pienamente lo scopo del fornitore pubblico. Si apre un nuovo spazio dove allo scambio valorizzato (informazione contro pubblicità), subentrano prestazioni reciproche gratuite.”
Su questo principio si potrebbe addirittura sviluppare un nuovo tipo di economia – l’economia relazionale della quale parla Attali – basata sulla cosiddetta impresa open source. Ma chi se non la sinistra, può proporsi di percorrere questa seconda strada?
Marcello Cini
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