Pierfrancesco Attanasio fotografa un dato a mio avviso inquietante: nel 2000 solamente un lavoratore occupato su quattro legge un libro l’anno per ragioni di lavoro, un dirigente o libero professionista o imprenditore su due e un ragazzo in cerca di occupazione su dieci. Nel 2006 la situazione peggiora.
Ricompattando i dati si può dire che sulla popolazione attiva occupata o in cerca di occupazione, circa 25 milioni di persone, nel 2000 i lettori per lavoro erano circa 6 milioni mentre nel 2006 erano scesi a 5 milioni.
Se focalizziamo maggiormente l’attenzione sulle persone che sono in sostanza chiamate a dirigere le attività del nostro Paese scopriamo che nel 2006 la percentuale di lettori per motivi professionali è scesa rispetto al 2000 del 7,6 %: 1.067.000 dirigenti, imprenditori ecc. leggono almeno un libro all’anno collegato al loro lavoro.
In compenso durante questi cinque anni il numero dei dirigenti è aumentato passando da 2.325.000 a 2.779.000.
Questo vuol dire che 1.700.000 dirigenti non sono interessati all’aggiornamento.
I dati raffrontati con l’estero è meglio non stare nemmeno a leggerli, pena una profonda depressione.
La sostanza è che aggiornarsi non serve né ai giovani dirigenti né ai giovani disoccupati, sempre tenendo conto che almeno ai primi non dovrebbero difettare né gli studi né il guadagno.
La speranza che si preparino su internet viene anche questa volta frustrata in quanto in sostanza si scopre che esiste una correlazione stretta fra l’uso avanzato dei media digitali e quello dei libri.
Non è inutile quindi interrogarsi di che cosa si parla quando si tirano in ballo l’innovazione e la competitività come ricette per far uscire l’Italia dal declino.
Se pensiamo che per trovare il cosiddetto “posto fisso” o mantenere posizioni di rilievo sullo scenario internazionale non serva studiare credo che ci manchino i fondamentali. Un po’ come giocare a calcio: tutti noi abbiamo più o meno imparato in giovane età a controllare il pallone, fare qualche palleggio, stoppare correttamente la palla.
Senza questi fondamentali risulta veramente difficile fare una buona partita o avere un posto in squadra.
Ma soprattutto è possibile che queste carenze ci portino ad ottenere un posto in squadra o di lavoro tramite altre vie, come ad esempio la solita raccomandazione.
Ed ancora la stessa specializzazione produttiva, il perseguimento dell’innovazione del nostro Paese non possono che rimanere monche: non possiamo pensare che sarà solo il nostro artigianato a salvarci.
Come dice Franco Tatò “non è fabbricando borse di lusso che si aggancia la modernità”. E queste premesse valgono tout court anche per le politiche ambientali.
È necessario invertire questa tendenza.
Ne abbiamo sia le forze, che le possibilità che l’intelligenza.
Ricompattando i dati si può dire che sulla popolazione attiva occupata o in cerca di occupazione, circa 25 milioni di persone, nel 2000 i lettori per lavoro erano circa 6 milioni mentre nel 2006 erano scesi a 5 milioni.
Se focalizziamo maggiormente l’attenzione sulle persone che sono in sostanza chiamate a dirigere le attività del nostro Paese scopriamo che nel 2006 la percentuale di lettori per motivi professionali è scesa rispetto al 2000 del 7,6 %: 1.067.000 dirigenti, imprenditori ecc. leggono almeno un libro all’anno collegato al loro lavoro.
In compenso durante questi cinque anni il numero dei dirigenti è aumentato passando da 2.325.000 a 2.779.000.
Questo vuol dire che 1.700.000 dirigenti non sono interessati all’aggiornamento.
I dati raffrontati con l’estero è meglio non stare nemmeno a leggerli, pena una profonda depressione.
La sostanza è che aggiornarsi non serve né ai giovani dirigenti né ai giovani disoccupati, sempre tenendo conto che almeno ai primi non dovrebbero difettare né gli studi né il guadagno.
La speranza che si preparino su internet viene anche questa volta frustrata in quanto in sostanza si scopre che esiste una correlazione stretta fra l’uso avanzato dei media digitali e quello dei libri.
Non è inutile quindi interrogarsi di che cosa si parla quando si tirano in ballo l’innovazione e la competitività come ricette per far uscire l’Italia dal declino.
Se pensiamo che per trovare il cosiddetto “posto fisso” o mantenere posizioni di rilievo sullo scenario internazionale non serva studiare credo che ci manchino i fondamentali. Un po’ come giocare a calcio: tutti noi abbiamo più o meno imparato in giovane età a controllare il pallone, fare qualche palleggio, stoppare correttamente la palla.
Senza questi fondamentali risulta veramente difficile fare una buona partita o avere un posto in squadra.
Ma soprattutto è possibile che queste carenze ci portino ad ottenere un posto in squadra o di lavoro tramite altre vie, come ad esempio la solita raccomandazione.
Ed ancora la stessa specializzazione produttiva, il perseguimento dell’innovazione del nostro Paese non possono che rimanere monche: non possiamo pensare che sarà solo il nostro artigianato a salvarci.
Come dice Franco Tatò “non è fabbricando borse di lusso che si aggancia la modernità”. E queste premesse valgono tout court anche per le politiche ambientali.
È necessario invertire questa tendenza.
Ne abbiamo sia le forze, che le possibilità che l’intelligenza.
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