Nel 1976 Amory Lovins espresse su Foreign affairs una tesi che lo rese famoso. Esisterebbero, in sintesi, due strade per quanto riguarda il nostro futuro energetico: la via “hard” (dura) caratterizzata da una crescente dipendenza dalle tecnologie centralizzate e su larga scala; la via “soft” (morbida) che si affida maggiormente – non esclusivamente – alle tecnologie decentralizzate e su scala più ridotta. La prima opzione è tipicamente quella degli impianti di tipo nucleare, mentre la seconda viene rappresentata dall’energia solare e dalle picole dighe. Le due opzioni si escluderebbero a vicenda ed il sisema esistente è orientato verso al prima ipotesi. Lovins avanzò l’idea che i sistemi dipendenti da una produzione centralizzata dell’energia consentono il predominio di parti che hanno interesse a mantenere lo status quo, situazione che potrebbe perpetuarsi, per esempio, attraverso il rifiuto da parte delle imprese di pubblici servizi, di acquistare la parte di energia eccedente prodotta da coloro che seguono la via “morbida”. Questi, in assenza di mercato sarebbero meno incentivati a produrre energia seguendo vie alternative e decentrate. Se valida questa argomentazione getterebbe alle ortiche qualsiasi aspettativa di transizione efficiente e lineare verso il passaggio a nuovi tipi di energia e distribuzione. Proprio nel Paese che è visto come il regno del libero mercato, accade però un fatto singolare: nel 1978 il Congresso approva infatti la Public Utility Regulatory Policies Act per incentivare la produzione di elettricità ricorrendo a risorse rinnovabili e sistemi di cogenerazione (produzione combinata di elettricità ed energia termica utilizzabile), stimolando indubbiamente la produzione di elettricità su scala e da fonti rinnovabili. E se gli Stati Uniti non si sono fidati della mano invisibile non vedo perché dovremmo farlo noi…