Ulrich Beck l’ha chiamata “società del rischio” e credo avesse ragione. Bisognerebbe rispolverare con interesse alcune delle sue tesi, proprio nel momento in cui vorrebbero farci credere che esista un’emergenza della mortalità sul lavoro. Forse però non è un’emergenza, ma queste morti sono connesse con il nostro modello di sviluppo che supinamente stiamo continuando a scegliere, sono intrinseche ad esse. Perché i rischi cambiano anche la loro natura: non derivano più dall’esterno, dal non-umano, dalla fatalità naturale, ma dipendono da decisioni. Sono il riflesso di azioni ed omissioni dell’uomo stesso, la conseguenza di forze produttive fortemente sviluppate. La produzione delle condizioni di vita della società nella sua interezza diventa quindi un problema ed oggetto di ripensamento: la società deve venir messa a confronto con se stessa. Paradossalmente infatti sembra quasi che la fonte del pericolo non sia più l’ignoranza ma la stessa conoscenza, non un dominio carente della natura, ciò che si sottrae alla capacità dell’uomo, ma il sistema di norme e di vincoli oggettivi stabilito con la crescita industriale. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che la società in questo sviluppo ha seguito un percorso “suddiviso”, dove il sistema politico-amministrativo e quello tecnico-economico si sono sviluppati in due rami diversi. Da una parte il principio della partecipazione dei cittadini, l’elaborazione condivisa delle decisioni con regole democratiche e l’esercizio del potere politico e del comando che devono derivare dal consenso dei governati. Dall’altro lo sviluppo di un qualcosa che viene percepito come non-politico, ma è invece tutto politico. Il progresso tecnico è equiparato acriticamente a quello sociale e la direzione di sviluppo e i risultati tecnici seguono inevitabili vincoli oggettivi tecnico-economici, dove gli effetti negativi trovano giustificazione nell’innalzamento degli standard di vita. Il problema è che questo processo è completamente sottratto al vaglio politico, possiede un potere di realizzarsi immune alla critica e infinitamente più veloce rispetto alle procedure democratico-amministrative. Dice efficacemente lo stesso Beck: “il progresso sostituisce il voto. Più ancora diventa un sostituto dei problemi, un tipo di consenso preventivo su fini e conseguenze che rimangono ignoti ed innominati. (…) Solo una parte delle competenze decisionali che strutturano la società è legata assieme nel sistema politico e sottoposto ai principi della democrazia parlamentare. Un’alta parte è sottratta alle regole dei controlli e della giustificazione pubblica e delegata alla libertà di investimento delle imprese (…). I cambiamenti sociali sono rimossi come effetti collaterali latenti delle decisioni, dei vincoli e dei calcoli tecnico-scientifici. Ci si afferma sul mercato, si utilizzano le regole di realizzazione dei profitti e così facendo si rovesciano le condizioni della vita quotidiana.(…) Da un lato, le istituzioni del sistema politico presuppongono, per ragioni funzionali e sistemiche, che il ciclo produttivo di industria, tecnologia e economia. Dall’altro ciò fa sì che sotto tale copertura giustificativa venga data per scontata la trasformazione degli ambiti di vita sociale in contraddizione con le regole della democrazia: conoscenza dei fini della trasformazione sociale, discussione, voto, consenso.” L’incidente della Tyssen-krupp credo vada letto nella sua interezza come risultato di questa contraddizione e non come semplice mancanza di un paio di estintori. Anch’io la penso come Ewald la cui teoria segna un significativo cambiamento nell’interpretazione del welfare: la costruzione di questo non deve essere interpretata in termini di interesse di classe, di mantenimento dell’ordine sociale o di miglioramento della produttività nazionale, ma consolidarlo, ricostruirlo come fornitura di servizi (assistenza sanitaria), creazione di schemi assicurativi e regolazione dell’economia e dell’ambiente in termini di creazione della sicurezza. Questo nuovo welfare potrebbe essere il compito di una sinistra veramente moderna.
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