Qual è il miglior modo di investire risorse pubbliche per sviluppare le energie rinnovabili?
E gli incentivi ad essa destinati sono sempre un fattore positivo? Se lo chiede Massimo Mucchetti a pagina 4 di “Corriereconomia” di lunedì 28 aprile con il complemento di una interessante intervista a Luigi Paganetto presidente dell’Enea, che invito caldamente a recuperare. Gli argomenti non sono di facile presa e difficili da trasporre, ma meritano una sottolineatura dei dati.
Che parrebbero paradossali.
Ad esempio il ricorso a fotovoltaico ed eolico non è sufficiente per abbattere le emissioni di CO2 che rimarrebbe su livelli di circa 160 milioni di tonnellate, contro le 110 mln di tonnellate prodotte nel 1990 e i 147 mln di tonnellate del 2005.
E quanto costeranno le fonti rinnovabili al consumatore, visto che le incentivazioni si caricano in bolletta?
Al 2020, anche ipotizzando una riduzione dei costi di investimento a seguito del miglioramento tecnologico ed alla maggior scala di produzione, l’incentivo medio potrebbe essere di circa 110 € al MWh determinando un onere nel sistema di circa 6 miliardi di € l’anno.
Ed una terza domanda: se i sussidi sono fatali per le fonti rinnovabili, la loro quantità va bene o è esagerata? È esagerata.
Arturo Lorenzoni della IEFE-Bocconi, calcola che l’onere in eccesso rispetto al costo evitato di acquisto di 54 miliardi di KWh da fonti fossili, maggiorato delle esternalità negative, si aggira intorno a 3,3 miliardi di €.
A questo punto per produrre 54 miliardi di Kwh da fonti rinnovabili bisognerebbe investire 86 miliardi di €.
Ma a parte la messa in opera gran pare dell’investimento darà luogo ad importazioni – anche con qualche timido segnale di della nascita di una filiera nazionale.
Chi parteggia per le rinnovabili, dice che comunque i 4 miliardi in più della finanziaria compensano i rischi della costruzione.
Come se ne esce? Una risposta utile ci viene integrando l’articolo di Mucchetti con le dichiarazioni di Paganetto.
Sicuramente una rapida espansione del mercato porta a una ondata di innovazione ed un rapido recupero di efficienza.
Ma vincono le aziende che arrivano per prime alla fine del processo innovativo, portando una certa tecnologia livelli ottimali di efficienza.
E per fare questo bisogna sperimentare diverse strade. Un esempio è quello dei pannelli fotovoltaici: puntare a costruire pannelli migliorando i risultati per cm. quadrato ma alzando i costi, oppure puntare ad abbattere i costi sperimentando materiali diversi dal silicio?
Più si allarga la base di sperimentazione e prima si arriva alle soluzioni ottimali. Da qui il ruolo della Stato e degli incentivi pubblici.
Lo Stato dovrebbe favorire l’allargamento della base di sperimentazione, anche se ragionare solo sui costi non ha molto senso perchè bisogna cercare di riparametrarsi sugli altri, altrimenti si è tagliati fuori.
Inoltre se si vuole spingere le aziende a migliorare l’efficienza tecnologica, l’eccessiva incentivazione può avere effetti controproducenti.
Bisogna trovare un equilibrio fra lo stimolo alla ricerca ed il pericolo che le aziende si siedano sugli incentivi stessi.
E la fine del ragionamento è intuibile: non sarebbe meglio se lo Stato assicurasse la certezza del diritto a realizzare i progetti legittimamente approvati e destinasse 1-2 miliardi l’anno alla ricerca su solare e affini risparmiando il resto o rendendolo disponibile per mantenere la ricerca per diversi anni?
Come Sinistra è necessario quindi iniziare a maneggiare meglio l’economia dell’ambiente e porsi questi problemi con maggior lungimiranza, selezionando le politiche per quello che possono dare al meglio come efficienza, senza semplificazioni ideologiche che possono portare a risultati opposti a quelli sperati.
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