Nel nostro tempo il carisma etico del padre ha lasciato il posto all’apologia scientista del numero. Anche la pratica delle cure risente di questo mutamento di paradigma. Diagrammi, costanti biologiche, protocolli, percentuali, comparazioni quantitative — necessarie ad ogni ricerca scientifica — rischiano di alimentare un feticismo della cifra che finisce per farci dimenticare che dietro ad un numero c’è sempre un corpo, un volto, un nome proprio, una vita che soffre. Lo stesso criterio di salute tende oggi a trasfigurarsi in un imperativo normativo se non in un vero e proprio comando igienista. In realtà il culto del benessere a cui oggi nessuno dovrebbe sfuggire impone una versione univoca e solo numerologica della felicità che corrisponde ad un tipo antropologico astratto. Questa ambizione emana un odore fatalmente fascisteggiante: attraverso l’imposizione di un ideale universale di salute e di benessere l’igienismo ipermoderno vorrebbe cancellare il carattere disarmonico, storto, sempre irregolare della vita umana. La malattia e la morte — come lo straniero, il migrante, la povertà, la follia — incarnano una differenza scabrosa che deve essere appianata. Nell’ideale positivo e universale della salute alberga sempre il rischio di una uniformazione della vita, di una sua medicalizzazione salutista. Non esiste infatti un criterio universale né della salute, né, tantomeno, della felicità. È questa una definizione precisa e inquietante che Lacan dava del totalitarismo: fare della felicità una misura universale. Con l’aggiunta essenziale che ogni volta che l’altro si prodiga per fare il nostro bene c’è sempre in agguato il rischio di perdere la nostra libertà. In questo contesto assume sempre più importanza il tema della cosiddetta umanizzazione delle cure. Non si tratta di rinunciare alla ricerca scientifica o agli strumenti specialistici di indagine diagnostica e di intervento terapeutico nel nome di un umanismo astratto, quanto, piuttosto, di ribadire, proprio nel tempo del dominio incontrastato della scienza e della tecnica, la centralità della dimensione della cura come attenzione per la singolarità irriducibile del paziente. Più precisamente, si tratta di calibrare ogni volta il codice paterno proprio del piano normativo delle procedure diagnostiche e terapeutiche — che, come tale, esige sempre nei pazienti una quota di oggettivazione — con il principio materno proprio della necessaria particolarizzazione delle cure. Questo principio consiste nel contrastare il carattere anonimo, standard, impersonale delle pratiche di cura. Il nostro tempo oscilla tra l’incuria assoluta (si pensi allo sfruttamento illimitato delle risorse del pianeta o al mito individualistico del successo a scapito di una concezione solidaristica della vita) e la riduzione delle cure a procedure spersonalizzanti. Diversamente il principio materno umanizza le cure nel senso che custodisce il senso più profondo della cura come dedizione per il particolare. Esso ostacola la riduzione del volto al numero e afferma il principio etico che la cura, ogni pratica di cura, è sempre cura dell’”uno per uno”. È qui che ritroviamo l’essenziale della donazione materna: rendere ogni figlio unico, non secondo la legge del numero, ma secondo quella etica della insostituibilità. Il principio materno ci ricorda altresì che in ogni pratica di cura la responsabilità coincide con la capacità di rispondere al grido di chi soffre, di chi si trova in una condizione di inermità e abbandono, sia esso un paziente, un quartiere, una istituzione o, come hanno recentemente segnalato con forza le nuove generazioni, il nostro stesso pianeta. Ovunque vi sia responsabilità come risposta al grido di chi soffre è in atto una esperienza di umanizzazione della cura. Rispondere al grido è saper restare vicini a chi è ferito e vulnerabile, a chi è gettato nello sconforto. Una cura che sa essere umana è una cura che non lascia solo chi soffre senza però nutrirlo con l’onnipotenza illusoria di una terapia priva di limiti che lo sviluppo prodigioso della tecnologia rischia di alimentare. Non a caso la dimensione umanamente più profonda della cura si rivela proprio laddove si incontrano i limiti della terapia come insuperabili. Si tratta in questi casi di prendersi cura della inermità di chi soffre senza promettere guarigioni impossibili e senza accanirsi nell’evitare ad ogni costo della morte. L’umanizzazione della cura definisce innanzitutto la salvaguardia della dignità del paziente. In questo senso la tutela del fine vita può essere un atto di profonda cura proprio quando contraddice l’accanimento della volontà terapeutica. Allora la morte può essere un dono che assicura alla vita il suo diritto a morire laddove la terapia ha dovuto riconoscere il proprio scacco. In questi casi estremi, l’umanizzazione della cura significa non sostenere la vita come principio astratto e impersonale, ma ricordare che ogni vita è una, singolare e insostituibile; che ogni vita ha diritto a vivere e a morire a suo modo.
Massimo Recalcati. La Repubblica 2.9.2019