Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
Browsing the archives for the Politica category.
Per riscoprire alcune nostre radici in questa giornata di sciopero generale, può essere interessante rileggere questo testo di Fernando Santi, segretario della Camera del Lavoro di Parma nel 1920 e di quella di Torino dal 1921 al 1925, e che dopo la Liberazione, nel 1947 e fino al 1965, è Segretario Generale della CGIL. Fu deputato per varie legislature nelle fila del PSI.
Il sindacato oggi non si occupa di solo pane. Il benessere che vogliamo conquistare per i lavoratori non è fine a se stesso. È una delle condizioni per una dignità umana e sociale senza la quale l’uomo – che per noi è il fine di tutte le cose – si sente lo stesso umiliato ed offeso, estraneo al consorzio civile, nemico agli altri ed a se stesso. Il sindacato è strumento naturale di democrazia. Ecco perché chiederci se siamo nel sistema o fuori dal sistema è porre un falso dilemma. Per la somma degli interessi particolari e generali che rappresenta, per i fini che si propone di giustizia sociale e di difesa della personalità umana, per il suo operare nell’ambito della legalità istituzionale, il sindacato è un’autentica forza democratica, garanzia di libertà.
Condizione perché l’iniziativa e l’azione del sindacato possano manifestarsi ad ogni livello e in ogni luogo – incominciando da quello di lavoro – è la sua autonomia da ogni e qualsiasi forza esterna: padronato, partiti, governi. Riconosciamo che questa autonomia può essere quotidianamente insidiata e che pertanto va salvaguardata ogni giorno. L’esigenza della autonomia effettiva del sindacato, così come la sua unità, nasce dalla necessità del sindacato di non delegare ad altri quelli che sono i suoi compiti naturali. Di non soggiacere alla pressione padronale, alle esigenze politiche di questo o quel partito, di questo o quel governo. L’autonomia del sindacato trova concreta espressione nella sua politica che deve partire dalla realtà obiettiva dei rapporti di lavoro, delle esigenze dei lavoratori e della collettività popolare nazionale […]
François Mitterand
Moderniser
«Che cosa abbiamo fatto? Che cosa abbiamo trovato? Lo riassumerò in cinque definizioni rapide: una società bloccata: una classe dirigente rinchiusa su se stessa e sui suoi privilegi, il privilegio del potere e il privilegio del denaro (…). Una classe dirigente rinchiusa su se stessa e delle ineguaglianze che andavano crescendo: sociali, fiscali, economiche, culturali, per non tacere di altre. Quale era il secondo carattere che, nel 1981, colpiva immediatamente chiunque guardasse bene in faccia lo Stato della Francia? Una società bloccata, ho detto, e aggiungo un potere statale dirigista, con i suoi corollari: la burocrazia, la centralizzazione. Ovunque, da tutte le parti dell’orizzonte politico di eri e di oggi, non erano il piano né l’organizzazione della libertà del lavoro (…) e neppure il libero mercato che dominavano, ma qualcosa di indefinibile e che si può semplicemente chiamare «dirigismo». Molti condannavano il socialismo ma difendevano il dirigismo senza regole e senza legge. Di fatto, a causa di un potere esercitato da pochi, la nazione era senza garanzie e voi ne avete sofferto. In terzo luogo, abbiamo trovato una economia in declino (…). La quarta parte del paesaggio che abbiamo trovato, era costituita da un gran numero di libertà compromesse. Una giurisdizione di eccezione, tribunali inventati, a disposizione del potere esecutivo, estranei alle regole fondamentali della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Era il rifiuto di elargire o di conquistare nuove libertà, e penso in particolare al settore audiovisivo. (continua)
Economia e politica è una rivista indipendente di critica della politica economica, costituita nel dicembre 2008. La rivista si propone di offrire ai media e al grande pubblico un punto di vista alternativo sulle più importanti decisioni politico-economiche che si sono imposte in questi anni, in Italia e nel resto del mondo: privatizzazioni e deregolamentazioni, aumento della flessibilità del mercato del lavoro, politiche monetarie e di bilancio restrittive, contrazione dello stato sociale, e molte altre. Troppo spesso queste scelte vengono esaminate dai media in modo acritico e superficiale. Generalmente, i reali vantaggi e gli svantaggi di tali politiche non vengono adeguatamente pesati, e gli interessi sottesi ad esse non vengono posti in luce.
Passa così, nell’opinione comune, l’idea secondo cui la riduzione delle tutele contro i licenziamenti riduce la disoccupazione, o il convincimento che le privatizzazioni garantiscono un sicuro miglioramento del benessere collettivo, oppure ancora la certezza che il deficit pubblico rappresenti di per sé un male da sconfiggere. Si tratta di asserzioni prive di un adeguato supporto scientifico: su di esse, e su molti altri luoghi comuni, numerosi e autorevoli studiosi hanno sollevato forti dubbi, elaborando ricerche che hanno condotto a risultati spesso opposti a quelli solitamente presunti nel dibattito politico. Eppure questo il grande pubblico non viene quasi mai a saperlo.
Accade così che in campo editoriale si giunge a giudicare come “leggi naturali dell’economia” i risultati di presunte analisi “neutrali”, che in realtà poggiano su assunti arbitrari e si avvalgono di verifiche empiriche contraddittorie. La rivista on-line Economia e politica nasce con l’intento di contribuire a un rilancio delle forze progressiste del Paese. Naturalmente, una svolta negli indirizzi politici nazionali potrà derivare solo da una complessa congerie di circostanze, tra le quali risulterà probabilmente decisivo il rafforzamento del mondo del lavoro sul piano sia sindacale che politico.
Tuttavia, riteniamo che un contributo non trascurabile possa derivare anche dall’azione coordinata degli economisti critici, che permetta ai lettori di esaminare in modo più smaliziato le scelte di politica economica dei nostri tempi e magari di andare a fondo nell’analisi strutturale degli interessi che le determinano. Proveremo così a gettare uno sguardo nuovo, critico e scientificosui grandi temi dello sviluppo capitalistico e della distribuzione della ricchezza prodotta, delle condizioni del lavoro, della questione di genere, dell’ambiente, dei mercati finanziari internazionali. E cercheremo di presentare queste complesse tematiche facendo attenzione a contemperare la duplice esigenza dell’approfondimento scientifico da un lato e della chiarezza e accessibilità del linguaggio dall’altro.
Il premio per questi nostri sforzi sarà il gradimento dei lettori, la loro partecipazione, il loro stimolo continuo a migliorarci per affinare sempre di più il pungolo della nostra analisi e della nostra critica.
‘People first. Una nuova direzione per l’Europa’.
Condivido tuttora, nonostante l’attuale diaspora della sinistra, la domanda che Claudio Fava aveva formulato a Chianciano con chiarezza: “Abbiamo paura di impegnarci nella costruzione di una sinistra che sappia finalmente elaborare le culture del comunismo e del socialismo per proporne una sintesi originale? Qualcuno di noi è così miope da vivere questa sfida culturale e politica, che forse prenderà il tempo e lo spazio di una generazione, come un tradimento ai sacri luoghi delle nostre identità? O pensiamo davvero che tra dieci o vent’anni ci saranno ancora, in questo paese, una sinistra cosiddetta “socialdemocratica” e una sinistra cosiddetta “comunista”, ciascuna gelosa custode delle proprie liturgie e della propria storia? Un nuovo soggetto politico di sinistra non soffocato dall’ornamento dei propri aggettivi è solo una favola ce ci raccontiamo o è realmente una sfida che ci mette tutti (tutti!) in discussione?”
Penso ancora che il dibattito su come iniziare a costruire gli strumenti che possono contrastare l’offensiva travolgente che il capitalismo del XXI secolo sta portando avanti contro i popoli della Terra dovrebbe avere la priorità. Temo invece che l’obiettivo della ricostruzione di una sinistra senza aggettivi non sia ancora percepito nella sua urgenza. Certo non si potrà affrontarlo finché ognuno intende presentarsi all’appuntamento con la pretesa di usare la propria cassetta di attrezzi ereditata dal bisnonno.(…)
Così vengono tirati in ballo argomenti quali il denaro che l’elettore ha in tasca, la preoccupazione dei politici di essere rieletti che guida le loro politiche economiche, che i governi esercitano effettivamente un controllo sull’economia tale da consentire loro di raggiungere i propri scopi.
Ma gli elettori rieleggono i governi quando l’economia va bene? Cinicamente chi guarda le campagne elettorali può trovare sorprendente che i politici diano l’impressione di non gestire l’economia in un’ottica di rielezione.
Questa però sembra essere la conclusione di una accurata analisi condotta sul rapporto tra economia ed elezioni condotta da Alesina e Roubini (Economia elettorale. Tra promesse e realtà; Università Bocconi ed.) ripresa da John Kay nel suo interessante e consigliato: “Lampadine ad alta efficienza”, Brioschi ed.; 2007.
I due ricercatori si sono cimentati con due ipotesi alternative.
La prima, chiamata “il partigiano”, assume che l’influsso principale sulle azioni dei politici sia quello esercitato dalle loro opinioni dichiarate.
La seconda, o “dell’opportunista”, pensa che qualunque cosa sia dichiarata, essi faranno tutto il possibile per essere rieletti.
Secondo la teoria opportunistica, i cicli economici coincidono con i cicli elettorali.
Nella teoria partigiana si prendono si sposta invece la visuale.
Secondo quest’ultima accade che i governi di sinistra espandono l’economia nei primi anni di mandato ma successivamente, trovando fallimentari queste politiche, mettono in atto una politica di tagli di spesa.
Al contrario i governi di destra all’inizio del mandato contraggono l’economia e poi, con la stessa sensazione di fallimento degli altri, optano per l’espansione.
Una conseguenza della teoria partigiana è che l’economia ha maggiori probabilità di prosperare quando le elezioni sono indette dai governi di destra rispetto a quelli di sinistra.
Storicamente sembra che questo sia vero.
Ma se la tesi opportunistica a questo punto fosse corretta, i governi di destra riuscirebbero ad ottenere la riconferma più sovente di quelli di sinistra.
Questo non sembra essere così nettamente confermato.
Nell’analisi statistica di Alesina e Roubini la teoria “partigiana” sembra spuntarla rispetto a quella “opportunistica”.
Conclude Kay: “se l’econometria non mente, neppure i politici mentono.
La migliore spiegazione del loro comportamento è che, comunque vadano le cose, essi fanno sul serio.
E la migliore spiegazione del comportamento degli elettori è che decidono sulla base dei problemi in ballo e della competenza delle compagini governative.
E’ saggio essere cinici riguardo alla politica, ma possibile anche essere troppo cinici”.
Per approfondire in lingua inglese e francese: