L’ampio spazio che il tema dell’ambiente si è guadagnato anche nei media tradizionali non sembra convincerci del fatto che siamo vicini ad una soluzione del problema. Al contrario analisi discordanti e ricette varie forse complicano le nostre sensazioni e ci restituiscono al nostro precedente senso di incapacità, impotenza. Nella stessa comunicazione iniziano a manifestarsi falle pericolose che vanno dalle solite contrapposizioni tra esperti sui dati alla produzione di un’apatia diffusa come reazione al catastrofismo.
Chi si occupa d’ambiente registra, sempre più, una strana anomalia. Pur facendo la parte del leone in quasi tutte le nostre attività, l’economia o meglio gli economisti rappresentano la voce più flebile. Ciò potrebbe indurci in sospetto, visto che gli stessi spesso ammettono che l’ambiente rappresenta uno dei “fallimenti del mercato” dove il liberismo non trova spazio di manovra. Personalmente credo che la scarsa conoscenza del livello economico applicato all’ambiente sia invece una grave mancanza, una linea di sviluppo necessaria e imprescindibile. E non sto solo parlando di “semplici” applicazioni come le analisi costo-beneficio, ma dell’economia più profonda. Per intenderci quella che ci fa riflettere sul come ripartire tra usi alternativi le risorse che una società possiede e che ci mostra le possibili cause che determinano l’attuale situazione di scarsa efficienza nel loro impiego, oltre ai danni dei costi nascosti che tutti noi paghiamo senza accorgercene.
Un’economia dell’ambiente che ci spiegherebbe perché proprio quella parte dell’industria che accusa la politica di non possedere una visione economico-aziendalistica, preferisca l’attuale sistema di “comando-controllo” con limiti di emissione e scarse sanzioni, che sbraita contro l’uso da parte dell’Amministrazione di veri e propri strumenti economici che le indurrebbe a cambiare approccio nella produzione dell’inquinamento. Come anche mettere alla frusta ipotesi poco fattibili e fantasiose che non tengono conto dello stato attuale delle cose e che ci farebbero magari risvegliare in un mondo dove la mobilità è solo animale o in una eco-dittatura insostenibile.
Questa è solo una parte del problema, ma ne è un passaggio ineliminabile. Anche nel momento in cui abbozzassimo una forma di mondo a noi gradito, la traduzione di questo non può saltare l’economia. Le stesse politiche dovranno sempre più confrontarsi ed usare strumenti economici, ma questa volta che non scambino i valori con i costi. L’economia ambientale, quella equa e solidale, è uno dei campi veri su cui si giocheranno anche le nuove capacità amministrative che tra pochi giorni dovremo scegliere.
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
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È sotto gli occhi di tutti la difficoltà che si vive a sinistra. Ma le uniche onde, a dire il vero un po’ anomale, che si registrano sono il tentativo dei partiti di rispondere alla desertificazione istituzionale rivedendo i meccanismi dello strumento-partito. Non è sufficiente. Almeno per la sinistra e per la sua storia. Perché storicamente un modo genuino di rispondere della sinistra è quello di riorganizzarsi partendo dalla propria gente. Non intendo addentrarmi nella discussione delle forme-partito (che non sono da abbandonare come categoria). Non tutti siamo chiamati a farli funzionare, ma tutti siamo chiamati a costituirne le idee, le pratiche. Da questo compito nessuno può dirsi esentato o non in grado di contribuire.
Che fare?
Credo sia necessario creare in ogni territorio una costituente delle idee, che per ogni settore – ambiente, sanità, economia e via discorrendo – riveda i dati a disposizione e avvii una discussione veramente libera ed aperta a tutti coloro che pensano che i valori della sinistra (libertà, solidarietà, uguaglianza…) possano ancora guidare lo sviluppo della nostra società. Una discussione aperta per toglierci le incrostazioni che in questi anni hanno reso opaco il nostro messaggio.
Una discussione vera, senza slogan, dove le affermazioni devono essere sostenute dai dati e le azioni da proporre siano veramente fattibili e non viaggino nei cieli più alti. Solo questo potrà riempire i contenitori di cui i tecnici di partito stanno misurando le spoglie, le rovine.
Perché ad esempio la questione ambientale non è solo fatta di rifiuti e di inceneritori, ma anche di meccanismi di carbon tax, di applicazione di leggi europee, di monitoraggi, di economia ambientale.
La proposta sarà quindi quella di una discussione da riportare tra la gente normale, senza retropensieri di appartenenza a questo o a quel gruppo.
Perché non c’è una semplice voglia di rivalsa, ma il bisogno di parlare di problemi semplici e complessi senza censure, senza pensare di essere o meno in linea con qualche residuale totem del passato.
Questo è l’impegno che da oggi mi sono prefisso, senza rete e reticenze, dicendo anche cose forse scomode e fuori dal nostro “coretto” a cui ci siamo costretti.
Perché, come diceva l’amato Gramsci, il nostro compito è provare e riprovare.
Leggendo però senza paraocchi la realtà vera, anche quando non ci piace, senza averne paura.
Un appello, dunque, a tutti coloro che hanno ancora voglia di misurare se stessi con i valori della sinistra. L’indirizzo lo conoscete.
Quando votiamo, cosa votiamo? Sicuramente – anche se oggi meno rispetto al passato – per grandi idee che ci fanno preferire uno schieramento in alternativa ad altri. Un fatto innegabile è che votiamo per decidere la quantità di spesa pubblica che vogliamo. Questo, in sintesi, perché i mercati privati non possono funzionare sempre e non sono così efficienti come sembra.
Non tutti però sono d’accordo su questa tesi. A sinistra si ritiene che il meccanismo del mercato non possa essere lasciato a se stesso, ma debba cedere il passo ad un processo di decisioni economiche di carattere politico. A destra si suggerisce invece di “spogliare” il maggior numero di beni pubblici dalle loro caratteristiche “pubbliche”, in modo tale da trasformarli in beni “privati” da far gestire e regolare al mercato, stabilendo così il livello desiderabile di produzione di questi beni.
È nota la mia personale propensione per la prima ipotesi. Perché? Gli esempi possono essere molti. Un classico argomento è che il sistema della difesa nazionale non può essere costruito in modo da proteggere solo i cittadini che possono contribuire e non estendersi a tutti gli altri. O meglio ancora difendere in maniera diversa i cittadini a seconda di quanto hanno pagato. Ma il sistema può estendersi ad altri beni.
La Polizia di Stato pubblica potrebbe essere sostituita da un corpo privato che proteggerebbe soltanto chi porta un distintivo che attesti il suo pagamento al fondo destinato alla polizia. Oppure far risolvere le controversie giudiziarie solo a chi può permettersi di pagare giudici e giurie. Non si pensi che tutto ciò sia una semplice banalizzazione. Basterebbe scorrere i giornali di questi giorni sulle proposte del centrodestra di privatizzare la sanità pubblica ed applicare lo schema sopra richiamato, per renderci conto che questa possibilità non è così lontana ed inattuale.
Il nodo vero è che i beni pubblici non possono essere pensati come semplici merci, ma come elementi integranti il nostro sistema di diritti. Questo è il motivo per cui la sinistra parla di “allargamento” o crescita dei diritti.
Non volendo lasciare alla semplice capacità del mercato questa regolazione si ricorre, quindi, ad un altro meccanismo di scelta : il voto.
Purtroppo il voto possiede alcuni limiti che ben sappiamo. Possiamo infatti dire si o no a partiti e coalizioni senza poter suddividere su diversi argomenti le nostre scelte, come invece possiamo fare quando spendiamo i nostri soldi. In questo modo possiamo ritrovarci ad avere una spesa pubblica gonfiata in un settore ed insufficiente in un’altra.
Nella Sinistra che penso io comunque, restano fondamentali alcuni idee che non possono essere soddisfatte dalla destra: non possiamo pensare che la difesa nazionale, la scuola, la giustizia possano essere trasformate nella roccaforte dei privilegi dei ricchi, così come non siamo disponibili a dire alle persone che non potranno essere curate al meglio perché non hanno i soldi per una sanità complementare. E se un primo discrimine è pensare che il mercato non può risolvere da solo i problemi della gente, – quando poi forse li complica – deve essere anche chiaro che la distribuzione delle risorse deve essere ripensato. I soldi pubblici non devono essere spesi per le sagre della trota salterina, ma ad esempio per far crescere la ricerca nei nostri territori e per un sistema di sicurezza sociale più robusto. Non è certamente nuovo il pensiero che le persone sono disposte a rischiare di più e meglio in innovazione ed intraprendere nuove attività, se possono contare su un sistema di sicurezza sociale più forte. Proprio in questi giorni, ce lo ricordano diversi economisti che mettono a confronto la crisi del ’29 con quella attuale. L’uscita, allora, si chiamò New Deal e non, semplicemente, libero mercato.
Noi non abbiamo paura. A differenza di altri, il nostro impegno, la nostra passione non nascono contro qualcuno o qualcosa, ma sapendo che esistono le intelligenze e gli strumenti per riformare ciò che non funziona e progredire.
Per questo accettiamo la sfida del governo della nostra Regione e chiediamo il sostegno di tutti coloro che pensano che la divisione e la paura non siano programmi politici.
Non abbiamo paura di essere radicali perché sappiamo che radicalità significa discutere e confrontarsi per convincere, non imporre le proprie idee dall’alto; perché non si può fare il bene delle persone “malgrado” ciò che le persone stesse pensano. Il nostro radicalismo è la fermezza delle nostre convinzioni con la certezza che queste non valgono nulla se non ottengono la partecipazione dei cittadini.
Non abbiamo paura dell’innovazione nelle sue diverse forme, ma anzi la ricerchiamo.
Non abbiamo paura di confrontarci con il mercato quando questo è sano e correttamente vigilato. Non abbiamo paura di riconoscere le disfunzioni della cattiva amministrazione e il ruolo positivo delle imprese in diversi settori, ma sappiamo che esistono eccellenze della gestione pubblica che forniscono servizi di alta qualità ed al minor prezzo possibile che vanno salvaguardati.
Non abbiamo paura della crescita e dello sviluppo nel campo della salute, perché il nostro obbiettivo è il benessere delle persone. Nuove tecniche, nuovi farmaci, nuovi sviluppi dell’organizzazione sanitaria non possono che avere un fine: la crescita della nostra salute, la risposta ai nostri bisogni di benessere e di accesso alle cure. Un ospedale non serve a coloro che vendono farmaci o attrezzature, ma ai cittadini che ne usufruiscono.
Non abbiamo paura dell’innovazione tecnologica, perché non crediamo ai miti di un passato in cui si stava meglio.
Non abbiamo paura nella possibilità di convivenza delle diverse culture, perché siamo ben coscienti della maturità e dello sviluppo del nostro cammino nel secoli e non abbiamo paura del confronto. Uomini che possiedono valori e principi forti e consolidati, non avranno mai paura del confronto e non avranno paura di arrivare ad un accordo perché sanno in che cosa credono.
Noi crediamo negli uomini che tutti i giorni prendono decisioni e non hanno paura di fare il proprio lavoro, che hanno il coraggio di lavorare con una pressa o un tornio, di impegnarsi in un intervento chirurgico, di cambiare le regole del proprio lavoro rischiando anche il proprio benessere economico, di progettare un ponte e di costruirlo, di scegliere di lavorare in condizioni difficili ed incerte, di essere là dove altri non vogliono essere.
Scegliendo il coraggio dell’innovazione e del progresso al posto di governare sulle paure.
Certamente, in nessuna nostra affermazione potrà mai ritrovarsi la tentazione di trascurare la ricerca di un continuo miglioramento degli strumenti medici ad ogni livello, ma sicuramente facciamo nostro anche lo stimolo costante nel ricercare, anche al di fuori della “speranza tecnologica”, un sostanziale miglioramento delle opportunità di salute.
Allo stato attuale, però, continuiamo a registrare come il dibattito in corso sulle politiche tese al miglioramento dello stato di benessere, sia sempre e solo imperniato sulla capacità di disporre di tecnologie sofisticate e sulla necessità di reperire finanziamenti destinati perlopiù ad accrescere l’armamentario tecnologico. Con il risultato di centrare l’attenzione di operatori, manager e cittadini su tale dimensione tecnologica come la sola in grado di poter elevare, migliorare magicamente il livello di qualità dei servizi sanitari e in definitiva dello stato di salute generale.
L’idea di puntare sulla tecnologizzazione esasperata, accrescendo la fiducia della popolazione verso terapie ad alto contenuto “ingegneristico” come strategia superiore rispetto alla ricerca costante sull’individuazione e eliminazione dei determinanti negativi della salute, non è scevra da interessi economici oltre alla dimostrazione di come, tali sviluppi tecnologici, siano maggiormente accessibili a determinate classi sociali. Non è nuova la dimostrazione di come la quota delle risorse investite in ricerca nel campo sanitario dipenda, in larga misura, dai meccanismi che verranno usati in futuro per finanziare la fornitura di prestazioni quando i risultati della ricerca verranno commercializzati. Ed ancora è chiaramente dimostrato un nesso assai stretto tra l’espansione dell’assicurazione sanitaria e lo sviluppo di tecnologie specializzate sempre più costose, che mutano la forma e l’estensione della copertura assicurativa stessa e risultano influenzate dagli incentivi che operano sempre attraverso il sistema assicurativo.
Questa rincorsa focalizzata sui limiti tecnici della capacità di cura e la distorta percezione della malattia come fatto personale, individuale, può portare all’indebolimento e irregimentazione della ricerca bio-medica, all’abbandono dell’impegno verso politiche di promozione a favore della salute delle classi più svantaggiate rendendo vana la grande conquista culturale del nesso tra causa ed effetti tra diseguaglianza e aspettativa di vita. Inoltre disarticola la necessaria azione coordinata tra chi opera nella salute, nell’educazione, nel lavoro, nelle politiche ambientali.
“Siamo qui per noi ma non per noi, tanti ma per i ben più tanti che attendono da noi non solo un messaggio responsabile ma anche un’azione efficace per la salute e l’integrità di chi è oggetto di sfruttamento, emarginazione, repressione onde questi ne emerga con tutto il suo diritto e la sua capacità di porsi quale soggetto politico primario” (Giulio Maccacaro)
Abbiamo una convinzione inamovibile: le diseguaglianze di salute non rappresentano una condanna inappellabile, ma una caratteristica della nostra società che può essere modificata. Al di là di motivazioni etiche ricomprese nell’idea di giustizia sociale, risulta praticabile e possibile, in altre parole, un margine d’azione immediatamente percorribile che ci permetterebbe di attingere a un serbatoio di salute alla portata del nostro impegno. Condizione inevitabile è però la necessità di raccogliere la sfida di un coraggioso e quasi eretico rinnovamento delle nostre concezioni e criteri di lettura che reimpostino le false opinioni correnti sulla prevenzione, cura, organizzazione del lavoro e, in ultimo, della società derivate dalla pubblicistica più di moda, di cui l’onda privatistica non ne è che l’ultimo esempio.
Esiste, però, un problema essenziale che ostacola l’acquisizione di questa di ricerca al rango di priorità nell’agenda politica sanitaria: impegnarsi nell’analisi delle diseguaglianze nella salute conduce a un vero e proprio salto di qualità non solo verso il cambiamento per una nuova salute possibile, ma soprattutto rende coscienti sulla necessità di incidere nei diversi aspetti organizzativi del nostro quadro sociale. La conferma emerge dal costante richiamo sull’azione di fattori in gran parte esterni al mondo sanitario: il ruolo fondamentale dell’istruzione, le condizioni lavorative, lo Stato e le politiche abitative, le storie di migrazioni interne ed esterne al nostro paese, sono solo le più immediatamente individuabili.
La malattia stessa sembra rappresentare un momento finale, negativamente unificante di tutti questi aspetti. Cambia però l’angolazione, il punto di vista: lo stato di infermità non rappresenta più un evento casuale, accidentale, che può colpire senza apparente motivo ciascuno di noi, ma è rintracciabile in una storia per diversi aspetti quasi determinata, inserita in un contesto coerente dove è rinvenibile un filo conduttore. Interi gruppi di persone sembrano accomunati, nel bene nel male, in uno stesso destino di salute perché provengono da famiglie con livelli di istruzionr omogenei, appartengono allo stesso segmento sociale, hanno stili di vita e risorse simili.
La scelta di proporre questo argomento al centro della nostra azione politica possiede inoltre un altro motivo di interesse: pone in contraddizione le argomentazioni politiche correnti, ne coglie le profonde mistificazioni, i falsi assiomi che hanno relegato il discorso su salute, prevenzione cura a semplice computo economico, in un vicolo cieco che appare senza possibilità di risoluzione se non mediante il reperimento crescente di risorse. Svela inoltre la falsa pretesa di una scienza economica applicata alla sanità che si vorrebbe priva di ogni giudizio di valore, il cui unico fine sarebbe rivolto verso i soli problemi dell’efficienza, ergendosi a giudice della possibilità concreta, fattibilità, di interventi invece caratterizzati dall’efficacia e dall’equità reclamati da altri attori sociali, come quello medico e più in generale delle persone che formano la nostra comunità.
Questo è il nostro impegno per una riforma della sanità: più possediamo conoscenze sulle cause delle diseguaglianze, più ci avviciniamo alle radici dei meccanismi che possono condurci a una società sana, maggiori saranno le nostre capacità di scoprire e proporre approcci diversi ed efficacemente innovativi nel metodo e nella sostanza per nuove soluzioni politiche.
Non è il toccasana dei mali, ma il sistema dei controlli in sanità è argomento che i cittadini sollevano con diverse buone ragioni.
Sottopongo a tutti una risposta veramente ben calibrata e corretta che il pragmatismo medico americano ha messo in piedi proprio negli ultimi anni, soprattutto dopo l’impennata del numero degli interventi chirurgici e l’aumento dei costi aggiuntivi.
Esiste infatti un organismo molto temuto che si chiama Joint Commission che ispeziona i diversi centri sanitari in maniera del tutto casuale e senza preavviso, passando al vaglio gli aspetti sia igienico-sanitario, medici, tecnici e via discorrendo.
Se tutto è in regola viene rilasciata una certificazione, il Golden Seal of Approval.
Se si riscontrano “anomalie”, la struttura – ambulatoriale o ospedaliera – non viene chiusa d’imperio, ma gli viene fatto di peggio.
Infatti, senza la certificazione perde di fatto le convenzioni con Medicare e Medicaid (i sistemi “quasi” pubblici per anziani e chi non può permettersi di pagare le salate rette americane) oltre che con le assicurazioni private, che normalmente rifiutano la continuazione di collaborazioni con chi non possiede il “Seal”.
Questa Join Commission presenta però delle altre e più importanti specificità.
Ad esempio è governata da 29 elementi che rappresentano medici, infermieri, sindacati, associazioni di cittadini come anche da rappresentanti delle assicurazioni.
Non ha particolari poteri caratteristici delle organizzazioni governative (non chiude gli ospedali come detto sopra).
Ha degli ispettori medici che vengono scelti nei diversi ospedali e con rotazioni continue ogni quattro anni.
Con l’ultima chicca interessante: una sede in una – almeno a noi sconosciuta – città dell’Illinois, molto lontana dai grandi centri di potere politico ed universitario. Uno strumento quindi “lontano” dalle burocrazie pubbliche, partecipato e fattivamente indipendente.
Con una filosofia: se non sei adatto non spetta a me distruggerti, ma ti tolgo l’ossigeno.
Una tesi continua ad aggirarsi tra le pieghe della discussione sulle gestioni idriche: l’acqua sta diventando un bene scarso e quindi il miglior modo di ripartirla, di fare in modo che la sua distribuzione sia efficiente, è quello di affidarla alle leggi del mercato, lasciare cioè che la domanda e l’offerta regolino al meglio questo tipo di bene. Questo passaggio non è strano. L’economia notoriamente si occupa di ripartire fra usi alternativi risorse che soffrono di scarsità possedute dalla società. Beni ambientali come l’acqua non sono stati finora molto considerati dall’analisi economica perché ritenuti disponibili in quantità illimitate, non costituenti oggetto di scambio sul mercato, appunto in quanto ritenute illimitate e, pertanto, privi di prezzo. Ma il quadro cambia e finalmente anche questi beni possono entrare a pieno titolo nella contrattazione domanda/offerta che potrà determinarne un prezzo. Possiamo accettare questa nuova sistemazione del problema con le sue conseguenze? Sicuramente no. L’acqua è fondamentale per la vita e tocca all’umanità assicurarne la gestione collettiva. Servono uso, conservazione e protezione nel rispetto del diritto alla vita per tutti gli esseri umani e le altre specie viventi. L’acqua è un bene essenziale, da garantire a chiunque, indipendentemente dal reddito, in quanto parte della dotazione minima indispensabile di chi fa parte della comunità. Oltre allo stretto legame con un altro bene essenziale quale la salute. Ma anche tralasciando valori non meno importanti ai fini dell’uso delle risorse quali quelli etici, ambientali e sociali, proprio sul campo economico il sistema di mercato «fallisce» nei confronti delle risorse ambientali: esso non è in grado di funzionare e di determinare prezzi utili per ripartire le risorse in modo efficiente fra usi alternativi. Anche se il mercato fosse in grado di distribuire le risorse idriche fra i vari usi, di fatto esistono molte imperfezioni che non permettono di farlo in modo efficiente. E in una logica di mercato la gestione delle risorse idriche si confonde con quello della gestione dei servizi idrici. Nessuno nega che sia necessario un aumento di efficienza tecnologica, l’unica che deve rappresentare un costo, ma non confondiamo il costo del progresso di questa con l’attribuire un prezzo alla risorsa in se stessa che è di tutti ed a tutti deve essere resa disponibile senza la cosiddetta prova del mercato (o meglio delle tasche di tutti noi). Si scambia la causa per l’effetto: i diamanti non sono pochi perché costano tanto, ma costano tanto perché sono pochi e aumentarne o diminuirne il prezzo non ne cambierà il numero. Occorre porre dei vincoli preventivi all’utilizzo delle risorse in modo da proteggere le funzioni dell’ambiente e assicurare le basi potenziali per uno sviluppo sostenibile. Si tratta in questo caso di considerare la preservazione dell’ambiente come un bene pubblico dove il volume totale del bene è definito a livello politico e non dalle azioni individuali che avvengono nel mercato.
Gli industriali stanno chiedendo nei fatti all’Unione Europea di fare marcia indietro sulla questione ambientale.
“Si uccide l’industria” ululano, proprio quando i venti della recessione iniziano a sferzare.
Una delle cose che abbiamo imparato da queste crisi finanziarie è il fatto che il libero mercato smette di funzionare e crea disastri nel momento in cui gli attori del sistema, noi in definitiva, non possiedono tutte le informazioni corrette. I prezzi, in definitiva, non rispecchiano il vero valore delle cose e via discorrendo fino a momenti di crisi globale come l’attuale.
Ecco quindi il nuovo mantra proclamato urbi et orbi: lasciateci inquinare un po’ di più, o almeno un po’ più a lungo. In caso contrario arriverà il diluvio universale.
Noi non siamo eco-catastrofisti gratuiti, ma come dicevamo prima, qualche cosetta di politica e di economia l’abbiamo imparata.
Se quindi vogliamo giocare tutti ad armi pari, basterebbe ottenere una cosa molto semplice: fare emergere quali sono i veri costi ambientali e sociali delle attuali produzioni e chi le paga.
In modo cioè che il mercato sappia e mostri i veri costi delle merci prodotte: il prezzo totale dovrà cioè esprimere la propria verità ecologica.
In caso contrario il mercato venderà le merci prodotte a prezzi inferiori rispetto ai costi totali veri, per la semplice ragione che questi non conterranno le risorse destinate al disinquinamento, alle cure delle malattie correlate, allo smaltimento dei rifiuti prodotti e che continueranno ad essere pagati dalla comunità nella sua generalità attraverso le tasse, ribaltando cioè questi costi all’esterno, sulla comunità. Che poi siamo noi cittadini sottoposti alle tasse.
Spulciando tra i programmi elettorali in Europa, ci si può imbattere in una proposta apparentemente curiosa riguardante la sanità. In sintesi l’idea è quella di trasformare le articolazioni corrispondenti alle nostre Asl in organi elettivi. In realtà l’idea non è così curiosa come potrebbe apparire e ne abbiamo traccia anche in Italia nell’opera di Giulio Maccacaro. fondatore di Medicina Democratica. Proprio oggi, nel pieno della discussione di deficit sanitari, di critica ai poteri dei Direttori Generali sempre più monocratici, di ingerenze della politica persino nella nomina dei primari degli ospedali, questa proposta non è certamente da scartare. Malgrado tutto, infatti, uno dei settori di spesa maggiormente delicati e certamente onerosi, rimane in mano diretta non tanto della politica, quanto dei politici senza nessun vero controllo da parte di chi fruisce dei servizi sanitari. Il fatto che chi amministra il settore locale sanitario debba rispondere direttamente ai cittadini senza interposizioni e debba presentare un ventaglio di soluzioni al giudizio degli stessi fruitori del servizio con possibilità di scelta, potrebbe configurarsi come una piccola rivoluzione positiva con una semplificazione tra chi governa un sistema e chi ne usufruisce, rendendo maggiormente responsabili anche i cittadini del territorio sulle scelte da compiere e sottraendo la nomina al clientelismo politico e a meccanismi oscuri da parte ad esempio dei Presidenti di Regione che continuano a non essere perfettamente chiari. Chiaramente questa è una traccia che deve essere maggiormente sviluppata per ciò che riguarda il nostro territorio e che necessita di limiti e contrappesi adeguati come obbiettivi di politica sanitaria nazionali condivisi e mantenimento di interesse pubblico. Ma sicuramente ha il pregio della chiarezza, della responsabilità dei cittadini di una comunità data, della possibilità di scelta tra diversi programmi, di elezione di tecnici con una certa conoscenza del territorio in questione e via discorrendo.