Dorino Piras

La Salute, l'Ambiente, il Lavoro

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Ripensare gli incentivi alla rottamazione

 
Sono stati avanzati diversi dubbi sull’efficacia dell’attuale sistema di incentivi alla rottamazione auto, che sostanzialmente si rivelerebbe come un sistema alquanto grezzo e non particolarmente efficiente. Riprendendo alcune idee e sperimentazioni ancora poco conosciute (California, Ontario ecc.) un efficace strumento che impiega la leva economica e che non si discosterebbe come costi rispetto alla rottamazione, potrebbe essere quello della tassa/sconto. In sostanza al momento dell’acquisto di una autovettura, il cliente dovrebbe pagare una tassa oppure ottenere uno sconto, entrambi di entità variabile, a seconda di quanto il veicolo comprato sia efficiente. Secondo alcune esperienze in sostanza le tasse compenserebbero i rimborsi (Hawken, Lovins:capitalismo naturale 2007). Se si volesse raffinare ancora meglio questa strategia si potrebbe calcolare l’importo della tassa/sconto in base a quanto la nuova auto è più efficiente rispetto al veicolo precedentemente posseduto, che deve comunque essere demolito e non rivenduto. A margine la modifica della stessa imposta provinciale (IPT) sulle nuove immatricolazioni potrebbe rappresentare la tassa da rivedere secondo questi nuovi criteri. Il meccanismo favorirebbe la concorrenzialità, premiando i produttori di auto efficienti e stimolandone maggiormente la ricerca e commercializzazione di veicoli sempre meno inquinanti. Non da ultimo questo nuovo meccanismo di incentivo produrrebbe un’occupazione dell’industria qualitativamente migliore, anche mantenendo l’attuale forza quantitativa.

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Velocità e vantaggi sociali

 
Segnalo due dati che correlano la diminuzione della velocità dei veicoli con la riduzione del numero dei feriti e della gravità degli incidenti. Makinen riporta in uno studio del 2003 come per ogni Km/h di riduzione della velocità media, vi sia la possibilità di diminuzione del numero di incidenti con feriti di una percentuale tra il 2 ed il 7%. Pasanen in un testo del 1992 afferma che per un pedone il rischio di morte è di 8 volte superiore in caso di urto con un veicolo che procede a 50 Km/h rispetto ad uno che procede a 30. Se aggiungiamo che il consumo di carburante è direttamente proporzionale anche alla velocità risulta che l’istituzione di “zone 30” all’interno degli abitati, con un sistema di controllo efficace, rappresenti un indubbio vantaggio dal punto di vista sociale ed economico.

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Manifesto di bioetica laica

 
Oggi si è svolto un interessante incontro di presentazione del “nuovo manifesto di bioetica laica” a cura della Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni. Solamente il parterre dei relatori vale una citazione: da Carlo Augusto Viano a Gianni Vattimo, passando per Carlo Flamigni, Alberto Piazza, Eugenio Le caldano, Maurizio Mori per finire a Mario Riccio (il medico di Piergiorgio Welby) coordinati da Tullio Monti, il coordinatore della Consulta Torinese. Dibattito quindi ricco di cui speriamo vengano pubblicate le risultanze. Il discorso è sicuramente molto impegnativo e difficile, ma è innegabile che oggi la bioetica suscita grande interesse in tutta la cittadinanza e quindi un rilevante peso anche politico. Pur non entrando nello specifico della discussione e non potendo registrare qui le osservazioni di parte cattolica, credo comunque utile annotare alcuni caratteri utili che sono in campo nella discussione odierna. Intanto è da citare come la bioetica venga intesa spesso come uno strumento di difesa dalle innovazioni scientifiche e tecniche, lasciando la stessa medicina sotto scacco e riportandola sotto il controllo di una tradizione che, secondo alcuni, possa normarne l’attività al di là delle sue discussioni interne. Altro aspetto riguarda il tentativo in questa materia di imporre i propri contenuti e convinzioni, attraverso la forza delle leggi dello Stato, a tutta la cittadinanza. Altra difficoltà nella conciliazione delle diverse posizioni è la necessità o meno di rifarsi ad un corpus dogmatico, vincolante anche nel confronto tra le diverse tesi. Centrale in questa discussione è anche il rapporto di fronte all’ordine naturale, da una parte considerato intrinsecamente benefico e dall’altro non vincolante nella capacità di miglioramento mediante lo sviluppo di tecniche che amplino le diverse scelte umane nei confronti appunto dei limiti naturali. Discussione sempre aperta è anche quella del rischio del “paternalismo” medico. Temi inoltre che hanno infiammato i confronti negli ultimi anni sono la cosiddetta contraccezione d’emergenza (pillola del giorno dopo), la ricerca sulle staminali embrionali, il testamento biologico, le differenze di genere e l’orientamento sessuale. Significativo comunque appare la chiosa del documento di presentazione: “la bioetica laica è parte di un impegno per una società in cui cresca lo spettro dei modi di vita possibili e diminuiscano le sofferenze dovute all’imposizione di un certo atteggiamento di pensiero, piuttosto che di un altro, soprattutto per una società in cui nessuno possa imporre divieti ed obblighi in nome di un’autorità priva del consenso delle persone sulle quali pretende di esercitarsi.

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La sinistra in Provincia di Torino

Una sinistra seria e determinata, un ambiente disteso dove con un sorriso si riannodano molte storie per una nuova storia. Questa mi è sembrata la cifra dell’incontro di Torino “La Sinistra nella Provincia di Torino” svoltosi oggi alla Camera del Lavoro tra Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi e Sinistra Democratica. Dopo l’apertura di Luciano Gallino la composizione dei tavoli di lavoro sul welfare, lavoro, cultura, ambiente. Contenuti veri e nuovi senza problemi di simboli o forme partito: non sono i distinguo che interessano, ma finalmente la vera pratica plurale di fronte alle questioni più calde. Colpisce infatti la serenità di scoprirsi anche più uguali di quello che poteva sembrare entrando nella grande sala di Via Pedrotti, come l’assenza di ansia nella pratica della pluralità, non solo possibile ma benvenuta. Altri faranno meglio il punto di questa giornata. Personalmente ritengo importanti le conclusioni del gruppo che ha discusso di ambiente. Recuperare innanzitutto lo spirito con il quale sono nati i ministeri e gli assessorati all’ambiente: non semplice “gendarme” o registro delle criticità del territorio, collettore finale delle diverse forme di inquinamento, ma momento trasversale anche nella progettazione degli altri settori dall’industria al turismo. Ambiente che non deve più essere accusato di essere la zavorra di uno sviluppo, che noi intendiamo diversamente dalla crescita, ma opportunità di nuova occupazione e che tramite nuove politiche contribuisce alla diminuzione del costo del lavoro stesso, difende dalla precarietà e porta alla piena occupazione. L’impulso a far crescere una nuova economia ambientale che contribuisce all’analisi di cosa accade nella società, che svela come proprio l’ambiente rappresenti il momento in cui il mercato “fallisce” perché non è in grado di distribuire nella maniera più efficace le risorse che il lavoro della comunità pone a disposizione. E quindi i nuovi ruoli dell’operatore pubblico, del tanto vituperato Stato, chiamato a garantire in questa nuova allocazione di risorse l’equità tra tutti gli esseri viventi e quella intergenerazionale. Superando il nodo del rapporto tra scienza, innovazione ed ambiente: nessun retropensiero antiscientifico, ma anzi lo sviluppo della ricerca e dell’informazione che diventino bene comune condiviso e che costruiscano una scienza stavolta veramente sostenibile. Uno sviluppo da non confondere con una generica crescita. Un ambientalismo finalmente moderno e che ha voglia di confrontarsi a tutto campo con tutti, senza paure e su tutti i terreni, perché è proposta e non pone al centro la politica dei No. Quindi, buona la prima !

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Che altro?

Mi è capitato di riprendere in mano il vecchio testo di Garrett Hardin del 1968 che fissava il concetto di Tragedy of the Commons – la tragedia dei beni comuni. L’idea è semplice: se tutti ritengono illimitato il proprio diritto di usufruire di un bene pubblico, la sua capacità di carico verrà rapidamente superata e il bene, il common, si deteriorerà o scomparirà, a detrimento di tutti. Spesso non è così necessario farcire i concetti chiave con altre parole, ma lasciarli parlare senza tanti orpelli. What else?

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Pietre, tecnologia e ruolo dello Stato

 
Esiste un progetto, ancora poco conosciuto, che riassume nel suo piccolo come a mio avviso dovrebbero essere progettate le politiche ambientali, e non solo, degli Enti Locali. Riassumendo si tratta di una sperimentazione per la costruzione di una “losa” fotovoltaica. La losa è un tipo di rivestimento in pietra dei tetti di una zona del pinerolese che alimenta un’industria tipica ed importante di quella zona, dove esiste un vincolo architettonico con obbligo di rivestimento dei tetti in questo materiale. Ciò pone un problema nell’installazione di pannelli solari e quindi si è pensato di costruire la cella fotovoltaica rispettando questo vincolo, appunto una “losa fotovoltaica” con un progetto cofinanziato dalla Provincia di Torino. Perché è importante il contenuto di questo progetto? Sappiamo tutti che siamo in un periodo di scarsa disponibilità economica per gli Enti: si tratta quindi di scegliere la maniera migliore di spendere le risorse pubbliche. L’alternativa poteva essere quella di continuare con le politiche classiche: fare un bando aperto e smistare le risorse per pagare una parte della spesa a chi avesse voluto montare dei pannelli. Quali sono le ragioni che hanno sostenuto questa scelta? Innanzitutto il contenuto di innovazione tecnologica. Sono infatti sempre più convinto che le articolazioni dello stato debbano sostenere in maniera più netta progetti che cambino la specializzazione produttiva del nostro territorio in direzione dell’alta tecnologia: un territorio che non rinnova la propria produzione di beni a bassa tecnologia in beni capaci di competere meglio sul mercato è destinato al declino. Tutte le economie, ed i territori collegati, che reggono l’attuale globalizzazione, hanno reimpostato la loro produzione verso beni ad alto contenuto di conoscenza facendo propria l’analisi che vede una crescita costante di domanda verso prodotti tecnologicamente avanzati rispetto a quelli con contenuto medio-basso di innovazione. Importante è anche la riaffermazione del ruolo dello Stato, in senso ampio, nei diversi settori di ricerca. Nelle grandi economie moderne (Francia, Germania, Gran Bretagna ma ultimamente anche il Giappone che per anni ha affidato alle imprese la R&S) lo Stato assolve un ruolo decisivo nello sviluppo del sistema scientifico e tecnologico: la politica cioè colma quello che spontaneamente il mercato non sembra in grado di fare. Individuando e sostenendo con politiche di innovazione settori strategici capaci di stimolare una domanda di prodotti ad alto tasso di tecnologia, anche lasciando alle imprese la possibilità di soddisfarla.Non però a caso, ma rendendo sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale il suo intervento ed in questo caso rispettandone anche la storia e le tradizioni. Con il risultato in questo caso specifico di produrre un beneficio dato dalla contiguità delle imprese con la comunità che viene coinvolta nell’impegno di una sfida tecnologica di un proprio prodotto. Creare queste condizioni uscendo dalla “pigrizia” amministrativa, intervenire nella ricerca, cambiare la specializzazione produttiva del nostro territorio verso la crescita scientifico-tecnologica, salvaguardare la sostenibilità sociale ed ambientale di questi processi, sono le priorità che cercheremo di costruire nell’impegnare le nostre risorse. I tempi dei soldi a pioggia ed a caso devono terminare.

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Mobilità socialmente insostenibile

Da dove partire per decidere quale mobilità vogliamo? Quale può essere una base di discussione condivisibile in maniera ampia, il capo di un gomitolo fin troppo aggrovigliato? Una possibilità potrebbe essere quella di considerare l’interesse pubblico. Non solamente dal punto di vista sanitario, ma che possa rispondere alla domanda che in fondo i cittadini rivolgono a chi li governa: le risorse devono essere spese nella maniera migliore, più efficiente possibile e la capacità di regolazione deve condurre al migliore risultato per la società nella maniera più equa possibile. Un criterio immediatamente percorribile in questo senso è che le decisioni in merito, a parità di beneficio, minimizzino il costo sociale del sistema di trasporto e cioè il costo in termini di risorse utilizzate nel complesso dalla società. Il dato da cui partire potrebbe essere un’analisi costo-efficacia che valuti il costo sociale dei trasporti, cioè tutte le spese che la collettività sopporta nel suo complesso a causa di questi, sia direttamente che indirettamente. Per intenderci meglio si possono comprendere le spese sostenute dai privati e dal pubblico per realizzare le infrastrutture di trasporto compresi i costi ricadenti sulla comunità e che non vengono sopportati dagli utilizzatori del veicolo o dai gestori del servizio di trasporto. Tali costi possono suddividersi in interni ed esterni. I primi riguardano la produzione (costruzione e gestione) e l’uso delle infrastrutture di trasporto e sono alla base della domanda e dell’offerta di trasporto; gli esterni sono i costi non sopportati dagli utilizzatori delle infrastrutture di trasporto e che non rientrano nelle decisioni degli utenti delle strade. La stessa teoria economica ci aiuta considerando che non considerare i costi e benefici sociali significa utilizzare le risorse in modo inefficiente. Nel caso specifico si verifica una divergenza tra i costi privati del trasporto e quelli sociali comprensivi anche dei costi esterni che determinano. Poiché il costo privato è inferiore a quello sociale, gli automobilisti usano l’automobile più di quanto farebbero qualora dovessero tenere conto di tutti i costi. Sarebbe opportuna quindi la valutazione dei costi esterni almeno per capire dove dobbiamo aggiustare il sistema. Da ciò consegue che l’operatore pubblico, una volta determinata la quantità ottimale di traffico, deve attuare un sistema di razionamento che ne impedisca il superamento o mediante norme amministrative o facendo sopportare agli automobilisti gli oneri che riflettono i costi esterni in corrispondenza del livello ottimale del flusso autoveicolare. Il problema a questo punto riguarda la loro individuazione e stima. Un tentativo in questo senso è stato compiuto dalla Commissione Europea con la redazione di linee-guida relative alle metodologie di calcolo dei costi esterni, denominata “sentieri di impatto”. Questa metodologia prevede due fasi: una tecnica ed una monetaria. Nella prima si valuta la stima delle emissioni, la dispersione degli inquinanti, la concentrazione degli inquinanti; la scelta delle funzioni esposizione-risposta. Il numero dei soggetti esposti; e la valutazione in termini fisici del danno atteso. La seconda consiste nella valutazione monetaria dell’impatto stimato e cioè quanto i consumatori sono disposti a pagare per evitare il rischio del danno stimato nella fase precedente. I costi esterni riguardano tutte le attività commesse con il trasporto. Di questi i costi più rilevanti sono quelli connessi alla mobilità: l’inquinamento dell’aria; acustico; la congestione; gli incidenti; l’intrusione visiva; i danni agli edifici; il consumo di energia; l’inquinamento del suolo e delle acque superficiali e di falda per il dilavamento delle strade; l’effetto separazione ovvero l’impedimento delle relazioni sociali determinato dal traffico; l’ostacolo alla mobilità ciclo-pedonale; la diminuzione del valore e della fruibilità dello spazio/suolo urbano a causa delle infrastrutture. Senza entrare nell’articolazione delle fasi specifiche, possiamo comunque rendere conto del fatto che le stime per l’anno 1995 dei costi esterni imputabili alla mobilità ammontavano a circa 100.000 milioni di Euro, ben l’11% del PIL dei quali il 95% era da attribuire al trasporto stradale e nell’ambito di quest’ultimo in gran parte a quello in ambito urbano. Il sistema in sostanza non regge per ciò che riguarda i costi che la collettività deve accollarsi. Da qui può ripartire la politica.

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Ambiente incontrollato

Per chi si occupa di interventi ambientali, si sta sempre più affermando come nodale il problema dei controlli. L’esperienza del settore delle limitazioni al traffico ne è un esempio conosciuto: nei precedenti periodi di targhe alterne la difficoltà maggiore riscontrata era sicuramente quella di ottenere controlli efficaci e credibili. Questo è anche, in verità, il limite più descritto delle cosiddette politiche “comando e controllo” dove l’azione prioritaria è quella di stabilire limiti di legge per emissioni ecc. e di sanzionarli. Questa difficoltà riguarda un po’ tutti gli strumenti d’intervento e costituisce un vincolo significativo per la corretta gestione di queste politiche. Interessante da questo punto di vista è la conoscenza di alcuni dati. Nel caso ad esempio delle cosiddette zone a traffico limitato (ZTL) emerge come esse abbiano avuto un impatto significativo sul breve periodo sulla mobilità, per poi perdere di efficacia riducendosi quasi a interventi simbolici. Alcuni (Panella, Zatti) arrivano ad ipotizzare come realistico il fatto che in media nelle città italiane tra un terzo e la metà degli accessi alle ZTL sia irregolare. Dato che tra l’altro testimonia come il deterrente costituito dalle multe possa risultare molto blando potendosi immaginare un viaggio non in regola dentro la ZTL scarsamente rischioso. Il caso torinese viene anche indicato come diffondersi di un atteggiamento di tolleranza. Immaginiamoci cosa sta succedendo per limitazioni ancora più difficili da sanzionare quali quelle delle Euro 0 ed 1. Ma anche molto semplicemente il rispetto ad esempio delle corsie riservate ai mezzi pubblici o i parcheggi in doppia o tripla fila. Credo siamo in presenza di livelli di completa inefficacia. La colpa non può nemmeno essere addossata ai vigili: se da una parte la capacità di multare può essere espressione di un organico insufficiente esistono componenti difficilmente eliminabili quali il contemporaneo controllo di più mezzi o, il pur corretto, ammonimento bonario. Oltre al fatto che personalmente non ritengo in nessun modo giustificabile l’atteggiamento di noi cittadini, sempre ingegnosi e soddisfatti di averla fatta franca. Tutto ciò per dire in definitiva come sia impensabile applicare solo politiche di tipo comando e controllo, ma sia necessario accompagnare queste politiche anche con strumenti di vario tipo, tra cui inizierei a privilegiare quelli economici tipo ticket di entrata per le ZTL ( es. road pricing) con un adeguato sforzo tecnologico. Se da un lato mancano le risorse per aumentare gli organici, il sistema tecnologico che è più preciso e che si può automantenere con le stesse sanzioni, può rappresentare una risposta, seppur parziale. Tenendo anche conto che nelle esperienze più avanzate esistono anche guadagni che possono essere reinvestiti nello stesso trasporto pubblico. In ultimo la leva economica (non la semplice multa) applicabile in diversi modi, permette una razionalizzazione, ampiamente dimostrata, dell’uso delle stesse risorse energetiche, di cui il traffico veicolare rappresenta una quota quasi maggioritaria.

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Occhio alla finanziaria

Approvata la finanziaria. Segnalo un articolo da analizzare meglio quando avremo notizie più precise: la detassazione per ciò che riguarda l’uso del trasporto pubblico locale. A questo punto si aprirebbero nuove prospettive per allargare l’applicazione del ticket transport adottato in Provincia di Torino – con risparmio per i lavoratori del 35% del costo di un abbonamento annuale – anche su larga scala. Nuovi scenari quindi per la mobilità sostenibile.

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Le strade dell’energia

 
Nel 1976 Amory Lovins espresse su Foreign affairs una tesi che lo rese famoso. Esisterebbero, in sintesi, due strade per quanto riguarda il nostro futuro energetico: la via “hard” (dura) caratterizzata da una crescente dipendenza dalle tecnologie centralizzate e su larga scala; la via “soft” (morbida) che si affida maggiormente – non esclusivamente – alle tecnologie decentralizzate e su scala più ridotta. La prima opzione è tipicamente quella degli impianti di tipo nucleare, mentre la seconda viene rappresentata dall’energia solare e dalle picole dighe. Le due opzioni si escluderebbero a vicenda ed il sisema esistente è orientato verso al prima ipotesi. Lovins avanzò l’idea che i sistemi dipendenti da una produzione centralizzata dell’energia consentono il predominio di parti che hanno interesse a mantenere lo status quo, situazione che potrebbe perpetuarsi, per esempio, attraverso il rifiuto da parte delle imprese di pubblici servizi, di acquistare la parte di energia eccedente prodotta da coloro che seguono la via “morbida”. Questi, in assenza di mercato sarebbero meno incentivati a produrre energia seguendo vie alternative e decentrate. Se valida questa argomentazione getterebbe alle ortiche qualsiasi aspettativa di transizione efficiente e lineare verso il passaggio a nuovi tipi di energia e distribuzione. Proprio nel Paese che è visto come il regno del libero mercato, accade però un fatto singolare: nel 1978 il Congresso approva infatti la Public Utility Regulatory Policies Act per incentivare la produzione di elettricità ricorrendo a risorse rinnovabili e sistemi di cogenerazione (produzione combinata di elettricità ed energia termica utilizzabile), stimolando indubbiamente la produzione di elettricità su scala e da fonti rinnovabili. E se gli Stati Uniti non si sono fidati della mano invisibile non vedo perché dovremmo farlo noi…

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