Riporto un interessante articolo comparso sul sito economia e politica a firma di Ernesto Screpanti, Professore ordianrio di Economia Politica all’Università di Siena sul tema dell’Impresa Pubblica Competitiva.
L’entrata o la mera minaccia di entrata di una impresa pubblica nei diversi settori industriali e finanziari potrebbe servire ad indurre le imprese private già operanti ad evitare pratiche monopolistiche.
L’impresa pubblica competitiva (IPC) è definibile come un’impresa di proprietà pubblica che opera in competizione con imprese private. I suoi manager sono esposti a un vincolo di bilancio duro, nel senso che il governo non sarà pronto a ripianare qualsiasi perdita, e hanno l’obbligo di pareggiare il bilancio entro un arco temporale di medio periodo, pena il licenziamento. Nei costi può essere incluso un profitto normale da utilizzare per l’autofinanziamento della crescita e delle innovazioni. Non è tenuta a distribuire profitti, ma può finanziarsi sul mercato del credito, prendendo a prestito tutto quello che vuole, se riesce a persuadere i prestatori.
Produce beni privati in settori caratterizzati da relativa omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. La relativa omogeneità dei prodotti assicura la sensibilità dei ricavi alla competizione di prezzo. La relativa omogeneità delle tecnologie, intesa come una situazione in cui tutte le imprese del settore hanno facile accesso alla stessa tecnologia, assicura l’uniformità del saggio di profitto se c’è uniformità dei prezzi.
Lo scopo principale dell’IPC è di costringere le imprese private a praticare prezzi concorrenziali, impedendo comportamenti collusivi e sfruttamento oligopolistico dei consumatori. L’IPC sarebbe particolarmente utile in quei settori in cui la dismissione delle vecchie imprese pubbliche (comprese quelle a partecipazione statale) ha contribuito a creare condizioni oligopolistiche e in cui la concorrenza internazionale non è efficace, ad esempio perché gli stessi mercati internazionali sono dominati da imprese oligopolistiche.
L’IPC praticherebbe prezzi concorrenziali che assicurano solo il profitto normale e, se detiene una consistente quota di mercato, svolgerebbe una efficace azione competitiva. L’efficacia della competizione di prezzo sarebbe assicurata dalla omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. Naturalmente è favorita anche la competizione non di prezzo, soprattutto quella che passa per la qualità dei prodotti.
Un secondo scopo dell’IPC è quello dell’investimento nella ricerca e nell’innovazione. Ogni innovazione che crea un vantaggio competitivo porterebbe alla riduzione dei prezzi e all’aumento della quota di mercato. Ciò implica anche aumento del tasso di crescita e dei profitti reinvestiti. Le imprese private esposte a questo tipo di concorrenza sarebbero a loro volta costrette a investire in innovazioni se non vogliono perdere quote di mercato. In questo ambito l’IPC svolgerebbe anche una funzione di indirizzo della ricerca, orientando l’innovazione verso direzioni socialmente benefiche.
L’IPC, per fare un esempio, già potrebbe esistere nel settore della televisione. Sarebbe la RAI, se fosse gestita nell’ottica di cui sopra. In questo settore però non esiste una vera competitività di prezzo, gran parte degli introiti delle imprese provenendo dalla pubblicità e dal canone. In tal caso la competitività deve agire soprattutto sull’innovazione e la qualità del prodotto. Laddove invece, come nei canali a pagamento, la competitività di prezzo è possibile, l’impresa pubblica deve svolgere un’azione aggressiva.
Un altro settore in cui può esistere l’IPC è quello dei tabacchi. Qui la concorrenza internazionale è inefficace perché lo stesso mercato mondiale è dominato da poche multinazionali oligopolistiche. Per di più la competitività di prezzo sarebbe dannosa, in quanto stimolerebbe l’aumento della domanda. In questo caso si dovrebbe partire dal principio che il “bene” prodotto dall’impresa pubblica non è il fumo, ma la riduzione del danno associato al fumo. Un’impresa di stato, se esistesse, dovrebbe praticare politiche competitive soprattutto nella “qualità” del prodotto, nella ricerca di prodotti meno dannosi e nella tutela della salute dei consumatori.
Nei settori in cui, a causa delle recenti dismissioni, non esistono IPC, sarebbe necessario avviare una politica di riacquisto da parte dello stato. Penso in particolare ai settori delle assicurazioni, dell’energia elettrica, delle banche e della telefonia.
Si potrebbe essere tentati di sollevare la solita critica contro i fallimenti dello stato: i manager delle IPC sarebbero tentati di concedere molto slack gestionale per massimizzare la propria utilità in contrasto con la funzione obiettivo postagli dalle autorità pubbliche, sicuri di non dovere rendere conto agli azionisti per l’inefficienza produttiva e le perdite d’esercizio. Ma una tale critica sarebbe scarsamente efficace, perché le IPC opererebbero sui mercati dei requisiti produttivi e dei beni in competizione con quelle private, mentre uno stringente vincolo di bilancio metterebbe a rischio il posto di lavoro dei manager inefficienti.
Più plausibile sembra un altro tipo di critica. I manager delle IPC potrebbero essere tentati di accedere tacitamente a pratiche collusive con gli oligopoli privati. Accettando prezzi oligopolistici si metterebbero al sicuro dai rischi di perdita e potrebbero massimizzare i propri redditi. Ci rimetterebbero i consumatori, che non potrebbero usufruire dell’abbassamento dei prezzi a cui le IPC sono istituzionalmente impegnate.
Si può suggerire che, per far fronte a questa evenienza, si imponga la presenza di rappresentanti degli utenti nei consigli d’amministrazione. La cosa sarebbe fattibile utilizzando esponenti eletti da associazioni dei consumatori legalmente riconosciute. Sarebbe ancora più facilmente praticabile in quelle situazioni in cui gli utenti sono legati all’impresa da contratti espliciti: telecomunicazioni, energia elettrica, assicurazioni, banche, servizi di pubblica utilità etc. In questi casi i rappresentanti degli utenti di ogni singola IPC potrebbero essere formalmente eletti dagli utenti stessi.
Alcuni giornalisti tendono a ridicolizzare l’idea che lo stato debba produrre panettoni. Alcuni professori sostengono che non è comunque necessario, in quanto la contendibilità dei mercati indurrebbe le imprese a comportarsi in modo competitivo anche in mercati non atomistici. Il problema è che la teoria dei mercati contendibili[1] non funziona nei settori in cui, tra l’altro, esistono elevati costi irrecuperabili.
Ebbene l’IPC contribuirebbe a risolvere tale problema. La collettività dovrebbe annunciare di essere pronta ad assumersi questi costi nei casi in cui le imprese private non sarebbero disposte a farlo. Sarebbe pronta sia per i vantaggi generati dalla concorrenza sia per l’implicita capacità pubblica di assicurare i rischi. La semplice disponibilità ad assumersi costi non recuperabili sarebbe un fattore di aumento della contendibilità dei mercati per il solo fatto che c’è. Così potrebbe non essere necessario che lo stato produca panettoni, anche se questo fosse un mercato oligopolistico. Sarebbe necessario emanare una normativa che rende possibile l’IPC. Poi, l’entrata dello stato in alcuni settori, ad esempio quello della telefonia, potrebbe contribuire a creare comportamenti non collusivi anche nel mercato dei panettoni.
Fonte: economia e politica (qui link)
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