“Sì, siamo esattamente come le canne al vento. Noi siamo le canne e la sorte è il vento”.
Cento anni orsono veniva pubblicato “Canne al vento” di Grazia Deledda, Premio Nobel per la letteratura.
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
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Ognuno di noi maturerà un’idea su quest’anno di governo tecnico presieduto da Mario Monti e certamente non mancheranno autorevoli commenti ed analisi che chiariranno ancora meglio cosa sia accaduto e perché. Una lezione sembra però farsi strada analizzando questo strano anno: più che tecnico, questo esecutivo è sembrato tecnocratico. In sostanza, i veri giocatori in campo sono stati i veri depositari dell’esperienza e delle informazioni ministeriali: i diversi alti funzionari con carriere ormai “a vita” e monopolizzatori di una struttura politica apparsa in diversi momenti succube. Le diverse prove di questo stile “tecnocratico” si possono evidenziare in diversi passaggi a cui abbiamo assistito con un lieve sconcerto. Ad esempio la mancanza dei dati sugli “esodati” – successivamente diffusa all’insaputa del ministro “competente” – passando per i decreti sui farmaci che non hanno portato a nessun tipo di risparmio per lo Stato ricalcando leggi già esistenti fino al taglio sull’Irpef comunicato all’italico popolo in trasmissione televisiva dal solerte Sottosegretario all’economia. Senza parlare di tentativi sotterranei di introduzione di giochi contabili, come quello dei ricongiungimenti onerosi pensionistici nel tentativo di produrre un risparmio contabile a corto raggio che si sarebbe ribaltato in modo iniquo successivamente. Questa puntualizzazione dovrà servire ai prossimi governi per mettere mano alla riforma delle carriere degli alti burocrati statali, incontrastati “dominus” non sottoponibili al giudizio del gioco democratico ma nei fatti monopolisti in grado di segnare le linee d’intervento di ogni governo di marca tecnica o politica del futuro. Un governo tecnocratico nascosto che, per forza di cose, continuerà a difendere e non contraddire scelte legislative già fatte in passato di cui sono stati gli effettivi estensori e che nessun politico riuscirà a ribaltare, soprattutto dopo che abbiamo toccato con mano che nemmeno i “tecnici” riescono a farlo. E che sarà ancora più forte quanto saranno deboli le maggioranze politiche presenti. Ecco quindi una delle prime riforme che in realtà la politica dovrà compiere: un ricambio ragionato di queste figure che non potrà avvenire in maniera burrascosa e con tempi eccessivamente stretti, ma che dovrà favorire la crescita di figure in formazione pronte a subentrare in tempi ragionevoli e quindi con la necessità di affinare le proprie competenze e conoscenze in attesa di ricoprire nuove competenze. Non è un caso, a guardar bene, che nella cosiddetta agenda Monti non sia mai esistita una riforma della Pubblica Amministrazione in tal senso, arrivandosi persino alla nomina del Ministro della Funzione Pubblica in un secondo tempo. Crediamo che questo punto rimanga di nodale importanza per i prossimi governi, pena un significativo blocco della capacità “riformista” dei prossimi esecutivi e il perdurare dell’impasse del nostro Paese. Ricordiamocelo
Sempre più spesso leggiamo infuocati articoli sulla necessità di ricorrere a regimi privati per ciò che attiene alla gestione della nostra Sanità. Ultimamente è di moda suggerire la fuoriuscita dal sistema di protezione sanitaria dei cittadini ad alto reddito, in modo tale da ottenere risparmi per le casse pubbliche e lasciare ad un sistema di sanità parallelo chi può permetterselo. Ma è davvero conveniente tutto ciò? Pare davvero di no, soprattutto comparando esperienze anche europee che in questi anni hanno tentato di giocare questa carta. In questo articolo di Grazia Labate - già sottosegretario alla sanità - per Quotidiano Sanità, vengono analizzati i risultati di chi, soprattutto Germania ed Olanda, hanno permesso la fuoriuscita della popolazione benestante dal sistema sanitario senza ottenere benefici per le casse pubbliche e per i medesimi cittadini. Tutto ciò non significa che il sistema debba essere lasciato nelle condizioni odierne, ma scorciatoie populistiche di sapore liberistico non raggiungono, conti alla mano, traguardi utili per nessuno. Un po’ di serietà, quindi…
Barack Obama è nuovamente in giro per gli Stati Uniti. Dopo la vittoria delle presidenziali, si è infatti messo in testa di costruire una campagna di “pressione popolare” per arrivare ad approvare il punto del suo programma che aumenti la tassazione sui redditi maggiori di 250.000 $ mantenendo le riduzioni per i meno abbienti. La cosa interessante non risiede nell’argomento in sè stesso, ma sul “come” lo fa. In breve sta cercando di mantenere aperta una mobilitazione dei cittadini che l’hanno votato tramite gli strumenti che hanno permesso la sua vittoria. Una enorme banca dati, l’attivazione di un filo diretto tramite gli strumenti virali “social”, la sua presenza fisica stessa, l’organizzazione capillare costruitasi mediante referenti locali – e molto altro ancora – vengono rivitalizzati per un compito politico preciso: fare in modo che una mobilitazione popolare sostenga i suoi progetti e modifichi gli equilibri politici all’interno delle stanze di Washington e ribaltando la preoccupazione degli eletti che si trovano a dover dare conto più che alle strutture di partito, agli stessi elettori. E’ chiaro che gli Stati Uniti non sono l’Italia, ma questo tipo di azione politica potrebbe rappresentare una innovazione anche per i nostri stanchi rituali, soprattutto per un centrosinistra che ha percorso la strada delle primarie, simile a quella americana. Credo che l’uso sapiente dei dati, della capacità di mobilitazione della propria “gente, il rapporto costruito dai maggiori competitori con i cittadini, possano rappresentare una possibilità non solo di legittimazione, ma di azione politica diretta che, soprattutto Bersani, dovrebbe percorrere. E qui si tratta di innovazione vera, non di favole…
L’ultimo numero di Scientific American ha un editoriale dal titolo che dice già tutto: “I futuri posti di lavoro dipendono da un’economia basata sulla scienza”. Messaggio molto semplice, ribadito in modo ancora più diretto nelle prime righe dell’articolo: “metà della crescita economica degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale è venuta dal progresso scientifico e tecnologico”. Nei giorni scorsi, il New York Times ha ribadito lo stesso punto: “La scienza è la chiave per la crescita”. (…) E da noi? Da noi si parla molto di meritocrazia e di eccellenza, e non c’è politico che non si professi grande sostenitore della ricerca, ma se si volesse capire in concreto cosa hanno in mente i vari schieramenti per tradurre le belle intenzioni in fatti, si incontrerebbero molte difficoltà. La realtà concreta parla di continui tagli alla ricerca e alla formazione, e il dibattito pubblico sui temi scientifici è pressoché inesistente, dominato da soluzioni miracolistiche o da posizioni emotive, più che dall’analisi critica. Bisognerebbe incalzare la nostra classe dirigente sui temi della ricerca, magari pretendendo qualche risposta puntuale alla critica giustamente spietata espressa nell’ultimo numero di Nature. È anche dall’attenzione dedicata alla scienza che si misura la distanza abissale tra il livello del dibattito politico nel nostro paese e nelle nazioni avanzate.
Finanziare la ricerca è un “mantra” che sentiamo spesso ma di cui, forse, non siamo del tutto convinti. In Gran Bretagna qualcuno si è posto il problema e ha cercato di capire perchè, quanto e come. Succede che l’Istitute of Physics (Iop) del Regno Unito, che raggruppa i ricercatori di quella branca, chiede alla Deloitte, il più grande consulente manageriale al mondo, di essere passata al setaccio e di analizzare il peso della Fisica nei diversi settori produttivi del Paese. Dalla manifattura tessile, metalmeccanica, all’industria estrattiva passando per le telecomunicazioni capire attraverso gli acquisti, il consumo di beni, servizi, i salari e quant’altro capire il contributo al’economia in tempi di razionamento delle risorse per poter avere cosa e come la politica deve fare nei confronti di una scienza alla fine considerata non così rilevante e facilmente sacrificabile rispetto ad altri aspetti dell’economia. Il quadro restituito da Deloitte dovrebbe far riflettere anche la politica nostrana sul come far uscire dal loop recessivo anche economie deboli come la nostra. I dati forniti da Leopoldo Benacchio su “Nòva” non ammettono molte repliche: la fisica contribuisce all’economia inglese con 90 miliardi € che salgonoa 270 considerando l’indotto; fa lavorare direttamente più di un milione di persone che salgono a 3.9 milioni con l’indotto. In totale il suo peso è considerato più importante del settore delle costruzioni. E per ciò che riguarda il nostro Paese basterebbe fare l’esempio dela costruzione dell’LHC di Ginevra dove le nostre industrie manifatturiere hanno ricevuto commesse per un importo equivalente a circa il doppio di quanto l’Italia ha versato al Cern. Questa è la serietà con cui dovrebbe confrontarsi la nostra capacità di decisione politica: ricordiamocelo!
Cosa unisce la birra con i pannolini? Per scoprirlo basta leggere il trafiletto presente sull’inserto “Nòva” del Il Sole 24 ore, che ci dà l’idea delle strategie di vendita della grande distribuzione e sulla capacità di trattare le informazioni che affluiscono nei data base attraverso le carte fedeltà integrati con gli strumenti di pagamento usati e dalle informazioni dei social network. Così scopriamo che alle donne inglesi che acquistano pannolini vengono dati coupon di sconto per comprare birra. La scommessa è quella di azzeccare la tendenza delle famiglie con figli piccoli che avranno meno disponibilità di tempo per andare al pub e che quindi saranno interessate a fare scorta di birra da bersi a casa.