Massimo Recalcati ci racconta l’Isteria e la Nevrosi Ossessiva sotto lo sguardo di Lacan
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
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Non per buonismo. il mio migrante è inutile. Noi siamo quello che siamo perchè abbiamo applicato il concetto di diritto all’uomo in quanto uomo…
Esiste una fotografia che è diventata uno spartiacque nella storia della psichiatria italiana e più specificamente torinese. Non tutti la conoscono perchè, ancora oggi, suscita un’emozione forte anche nell’epoca in cui pensavamo di aver visto oramai tutto. La storia viene riproposta nella recente mostra “Matti, dall’emarginazione all’integrazione a 40 anni dalla Legge Basaglia” allestita a Rivalta nel castello degli Orsini segnalatami dall’amico Nicola de Ruggiero sindaco di Rivalta. La foto di Mauro Vallinotto fu pubblicata nel paginone centrale dell’Espresso del 26 luglio 1970 e si riferiva al manicomio per bambini di Villa Azzurra di Grugliasco, sempre nella cintura torinese. Raccontano che dopo poche ore dalla pubblicazione, Carabinieri e Magistrato arrivarono a Villa Azzurra iniziando il percorso che portò alla chiusura del manicomio dei bambini e successivamente di tutta la struttura. Molti si sono esercitati anche meritoriamente nella ricerca di significati più o meno nascosti di questa immagine, di trovarne un senso che potesse essere compreso dalla mente di ognuno di noi mentre guardavamo una bambina classificata “senza” una mente. A tanti anni di distanza credo sia ancora importante e necessario riuscire a guardare questa foto, meglio forse senza commentarla o cercarne un racconto. Come se non ci fosse un prima o un dopo.
Il 19 settembre 1978, a pochi mesi dall’approvazione della stessa legge 180, Franca Ongaro (moglie di Basaglia), scriveva: «Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza».
“L’esperienza clinica insegna che quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca una operazione destinata a coprire profonde angosce depressive o persecutive e che tale occultamento abbia in sé grande probabilità di predisporre colui che lo fa a distorsioni gravi nell’esame di realtà e quindi a non trovarsi nelle condizioni di poter prevedere correttamente le conseguenze possibili dei suoi atti.”
Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra
(…) Dunque lo psicoanalista è al tempo stesso medico e medicina. La formazione (il cosiddetto training) lunga e rigorosa, articolata fra teoria e clinica, è basata proprio sulla peciliarità che ciascuno di noi, prima di diventare terapeuta, deve fare il paziente. Cioé si fa curare, imparando il mestiere sul suo proprio inconscio. L’analisi personale ha lo scopo di vagliare il progetto del candidato, di confrontarlo con le sue parti malate e sofferenti (che in variabile misura ci sono sempre in coloro che decidono d’intraprendere tale atipica professione), anziché avallare il “cortocircuito” di porsi aprioristicamente dalla parte di chi cura. La qualità minimale, ma essenziale dell’analista è la capacità di sopportare l’angoscia: la propria, come premessa indispensabile per poi reggere quella degli altri. Ciò comporta la rinuncia – per quanto è umanamente possibile – alle difese (rimozione, diniego, scissione, proiezione…) che ostacolano la circolazione inter e intrapsichica di pensieri ed affetti; e particolarmente la rinuncia a quelle che potremmo chiamare “difese professionali”, al servizio delle quali possono andare i livelli più evoluti del pensiero: l’autoreferenzialità delle argomentazioni, l’autogiustificazione del proprio operare, il proiettare nell’altro le proprie parti malate per poi soccorrerle.
Fin dall’epoca di Freud, d’altronde, amiamo dire che nel nostro mestiere etica e tecnica coincidono, come sforzo verso il riconoscimento dell’alterità: riconoscere l’altro nella sua diversità senza odiarlo. Ciò serve a metterci in guardia dalla tentazione di prendere il posto dell’”ideale dell’Io” dei pazienti; dal cercare in essi sotterranee gratificazioni narcisistiche; nonché dalla pretesa onnipotente di poter guarire tutti, senza al consapevolezza dei limiti dei nostri strumenti e della nostra persona.
Non dobbiamo illuderci che sia sufficiente una cultura fatta solo sui libri per potersi cimentare nella dimensione clinica della cura dei pazienti. Ad esempio una “consulenza filosofica” (oggi molto in auge) aiuta a pensare, stimola allo studio; ma non sarebbe inutile se non addirittura nociva nel caso di una nevrosi, perché fa perdere tempo e collude con la resistenza tanto comune ad ammettere di essere psicologicamente malati. (…)
Simona Argentieri in: Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia, Zoja; “In difesa della psiconalisi”; Einaudi, 2013
Molta letteratura psicoanalitica mostra le proprie Colonne d’Ercole, al di là delle quali non è possibile andare, in quadri psicopatologici diversi arrivando al limite della possibilità di poter dare un aiuto significativo a patologie come la schizofrenia (per quanto valga oggi tale inquadramento). L’idea sottostante è spesso ancora quella che esista un continuum tra quadri cosiddetti “nevrotici” più affrontabili e con maggiori risorse disponibili per la “guarigione” (e qui non ci addentreremo su cosa ciò significhi in analisi) passando poi per gli stati “borderline” e quindi le psicosi, con minori chance di trattamento. Eppure per diverse ragioni facilmente comprensibili, si sta aprendo la strada una riflessione sui limiti e sull’opportunità dell’esperienza analitica in persone ormai anziane e che in passato non erano considerate idonee al trattamento analitico. L’idea non è certamente una novità, soprattutto ricordando come in campo medico gli operatori si trovino sempre più di fronte a pazienti anche molto anziani che vengono non solo assistiti, ma a cui vengono in numero sempre crescente proposte terapie anche impegnative. Nella storia della psicoanalisi si è assistito sempre più ad un ampliamento delle fasce d’età che possono avere giovamento dalla talking cure, ricordando sempre come fossero considerati limiti invalicabili l’età pediatrica da un lato e la maturità dall’altro. Se la comparsa di clinici come Melanie Klein hanno rappresentato un vero e proprio cambio di paradigma per l’età infantile, forse il tempo è maturo per una riflessione molto approfondita e sistematica sull’età “estrema” a cui la psicoanalisi può rivolgere i propri benefici. Tra i tanti, mi piace riportare una riflessione di Franco De Masi nel suo “psicopatologia e psicoanalisi clinica” dove lamenta da un lato come la letteratura psicoanalitica trascuri abbastanza la sofferenza connessa all’invecchiamento , mentre dall’altro segnala come ” i pochi casi trattati analiticamente presenti nella letteratura hanno risultati sorprendentemente buoni e, pertanto, sarebbe molti utile se gli analisti fossero più consapevoli della richiesta d’aiuto da parte delle persone anziane che mancano di “oggetti” capaci di accogliere la loro angoscia e trasformarla”.
Chi è il paranoico e perchè può oggi interessarci in maniera così stringente? Può la paranoia essere adoperata come uno strumento – non il solo certamente – attraverso cui capire meglio il nostro tempo? Luigi Zoja ci pone, in questo suo testo dalla leggibile complessità, di fronte a questa logica nascosta che procede scambiando cause con effetti intravvedendo la possibilità di fuoriuscita dalla patologia individuale a quella della “massa”. E questo “stile sragionante” dove si spinge il proprio male all’esterno, inventando ostacoli ed ostilità e attribuendo sempre a qualcosa di “esterno”, “Altro da sè” tutti i guai passati, presenti e futuri, sembra davvero essere una delle cifre con cui guardiamo oggi il mondo. Con l’importante notazione di come esistano infinite gradazioni dalla normalità a ciò che definiamo come pazzia. Per capirci meglio basta riandare al caso della “caffettiera della nonna”. Un’ anziana signora era assistita da una giovane ragazza che viveva con lei. Un giorno la ragazza vide una caffettiera nella vetrinetta e disse: ” Che bella caffettiera!” La nonna cominciò a sospettare: quella caffettiera le piace troppo, potrebbe rubarla. Così la nascose. Dopo qualche giorno alla nonna venne voglia di caffè. e, abitudinaria come tutti gli anziani, cercò la caffettiera nella vetrinetta. E non la trovò, dimenticandosi che l’aveva nascosta. “La caffettiera non c’è più, dunque è stata rubata dalla ragazza” ricavando una conferma dalle premesse che lei stessa aveva creato.
Franco De Masi non ha bisogno di molte presentazioni per chi pratica l’area della psicoanalisi. Già Presidente del Centro Milanese di Psicoanalisi, membro della Società Italiana di Psicoanalisi, ha al suo attivo molte pubblicazioni con una particolare attenzione per la comprensione psicoanalitica e la terapia dei pazienti più gravi. Leggere, però, il suo “Psicopatologia e Psicoanalisi Clinica” – ed. Mimesis, 2016 (pag. 216), ci riporta non solo ai fondamentali della materia, ma a tutto ciò che nella storia della disciplina si è mantenuto integro e vitale tenendo conto degli autori che hanno ampliato e contribuito all’evoluzione delle tecniche e delle teorie analitiche. Lontano dall’idea che esista una singola teoria psicoanalitica ortodossa, De Masi passa in rassegna i concetti del lavoro analitico senza pensare ad una loro linearità, ma cogliendone le molteplici stratificazioni che si sono aggiunte nel corso del tempo. Il testo non vuole essere una “summa” del sapere psicoterapeutico/psicoanalitico, ma è il naturale sviluppo dei suoi insegnamenti agli allievi della Sezione Milanese dell’Istituto Nazionale del Training della Società Psicoanalitica Italiana, registrate e trascritte dagli allievi e riviste dall’Autore. Il testo è, a mio modesto parere, un importante strumento da tenere nella cassetta degli attrezzi di chi sente la necessità di confrontarsi con chi ha praticato quest’arte e, soprattutto, ha vissuto in prima persona il presentarsi di nuove idee e tecniche che oggi vengono considerate dei classici, nel bene e nel male.
“L’aspettativa dei giovani analisti, che anch’io avevo ai miei tempi, è di poter arrivare a possedere un sistema organico di teorie e conoscenze tali da poter comprendere e orientarsi con sicurezza nel lavoro clinico. Purtroppo, invece, la conoscenza analitica deriva, e si arricchisce continuamente, dalla pratica clinica, che perciò diventa sempre più efficace. Non è possibile nessuna conoscenza valida sempre. Spesso l’analista , anche quando ha raggiunto un elevato livello di competenza, si meraviglia di quel che ancora non conosce e di come si ampli continuamente la sua visione. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, è chiaro che non esiste una teoria generale della psicoanalisi, ossia non esiste una teoria esplicativa che possa aiutarci a comprendere la molteplicità dell’esperienza clinica. Esistono invece alcune ipotesi che possono rivelarsi utile quando sono applicate ad ambiti psicopatologici specifici. In psicoanalisi, come in ogni scienza, non esistono verità eterne…”
Da Quotidianosanità
Il riordino degli ospedali piemontesi. Quei “maledetti” standard
Trovo rischioso che ci si limiti ad un riordino ospedaliero senza accedere contestualmente ad un discorso più ampio di riforma del sistema nel suo complesso, dal momento che le concomitanze tra territorio e ospedale sono innegabili
04 FEB - Ancora non abbiamo imparato, prima di fare danni, a mettere in campo delle valutazioni di impatto socio-sanitario per saggiare gli effetti delle politiche sanitarie sulle popolazioni interessate. La giuntadel Piemonte è stata costretta dalla contestazione dei propri territori a rivedere la sua delibera sul riordino degli ospedali (vedi articolo di QS con allegate le due delibere di novembre e gennaio).
A scrivere numeri sugli ospedali negli allegati delle delibere è facile ma prevedere i loro effetti reali, fisici, sulle persone che hanno bisogno nei loro svariati spesso complicati territori di vita è un altro paio di maniche. La mediazione che la Regione sta tentando con la nuova delibera di gennaio è di accontentare i territori in rivolta facendo sopravvivere alcune di quelle specialità considerate dalla precedente delibera “non assegnabili”.
Ma l’operazione di fondo, che è sostanzialmente una operazione a tavolino di neo-standardizzazione del numero dei posti letto, resta invariata soprattutto nei saldi. Gli standard alla fine, come dimostrano le proteste del territorio, sono astrazioni statistiche che si danno arie di verità scientifiche ma senza esserlo. Il problema della sanità piemontese non è solo essere oltre i parametri di compatibilità finanziaria ma anche che la sua produzione è calata del 3% senza una proporzionale riduzione dei costi e per giunta è aumentata la mobilità passiva verso altre Regioni (30 milioni solo nel 2013).
Questo vuol dire due cose:
· vi è tanto un problema di quantità di sistema e quindi di spesa ed è il problema principale della regione;
· quanto un problema di qualità di sistema e quindi di tutela ed è il problema dei cittadini.
La cosa difficile è conciliare le due cose. La riorganizzazione della rete ospedaliera, anche nella seconda delibera, è in pratica un intervento, a sistema fondamentalmente invariante, di “ospedalectomia”. Le indicazioni verbali delle due delibere sono eloquenti:riduzione dello standard dei posti letto ospedalieri accreditati a 3,7 posti letto per mille abitanti,adeguamento delle piante organiche in rapporto ad un tasso di ospedalizzazione pari a 160 per mille abitanti;riduzione dei posti letto in eccesso, soppressione di unità operative complesse, riconversione dei ricoveri ordinari in ricoveri diurni e i ricoveri diurni all’assistenza territoriale quindi assistenza ambulatoriale residenziale e domiciliare. Quindi le due delibere ragionano come se all’ interno del sistema sanitario piemontese vi fosse una superfetazione di posti letto, di unità complesse, di unità operative da ridurre o rimuovere mettendo in atto poi tutti le operazioni ricostruttive del caso (hub spoke, ospedali graduati per bacini di utenza ecc)
La Regione Piemonte si è sforzata di rassicurare in vario modo tanto i propri cittadini che i propri operatori ma a giudicare dalle proteste dei territori non è stata così convincente.Le loro rassicurazioni derivano da cose che si dovranno fare in un secondo tempo e si danno per scontate ma che scontate non sono dal momento che la nuova standardizzazione del numero dei posti letto, dovrà essere sostenuta da tutta una serie di atti di riforma quali riconversioni, un nuovo governo della domanda, il ripensamento dell’assistenza primaria, ecc.
Cioè il presupposto perché tutto funzioni è la contestualità tra la ridefinizione della rete ospedaliera e il riassetto dell’assistenza territoriale. Ma mentre tutta l’attenzione delle delibere è per la ospedalectomia sull’assistenza territoriale per ora vi sono solo enunciazioni. Le delibere sanciscono vistosamente la differenza tra norme performative e norme indicative.Le prime tagliano e ricuciono il sistema ospedaliero in essere (con la norma performativa si compie quello che si dice di fare producendo un fatto reale).
Le seconde invece, quelle che riguardano il territorio, si limitano ad asserire in modo non condizionale quello che si dovrebbe fare senza subordinare ciò che si dice di voler fare a degli standard, indicatori, criteri metodologici. Per cui tanto nella delibera che negli allegati la definizione del territorio all’indicativo ha il limite di essere molto… troppo generica. La questione viene rimandata ad atti successivi ma questo vuol dire che salta il principio di contestualità dichiarato con il rischio di creare una dolorosa fase di transizione fatta da abbandono, disfunzioni, tribolazioni per la gente, diseguaglianze di trattamento e soprattutto problemi di accesso ai servizi.
L’operazione quindi è concepita con la logica dei due tempi, prima si taglia e dopo si vedrà. “Contestualità”, non significa solo che il riordino dell’ospedale deve coincidere con il riordino del territorio ma sottolinea ontologicamente che ospedale e territorio sono due sottosistemi di un comune sistema sanitario e che quindi non vi può essere un riordino della parte senza una riforma del tutto. Contestualità quindi vuol direconcomitanza riformatrice nel senso delle “variazioni concomitanti” di Stuart Mill: si dia un obiettivo di compossibilità diritti/risorse e l’ospedale e il territorio quale sistema di diritti e di spesa….tutti i problemi di compossibilità causano variazioni nel primo e nel secondo e viceversa….dando forma ad un processo riformatore.
Trovo rischioso che ci si limiti ad un riordino ospedaliero senza accedere contestualmente ad un discorso più ampio di riforma del sistema nel suo complesso, dal momento che le concomitanze tra territorio e ospedale sono innegabili. La riduzione degli standard ospedalieri avviene a modello invariante di ospedale (l’hub spoke non è una riforma dei modelli ma solo la riproposizione di una classificazione che per altro pur con nomi diversi risale al 1968 cioè alla riforma Mariotti) per cui è probabile che parte della domanda sarà scaricata sul territorio ,a dicotomia invariante nei confronti dell’ospedale, senza che vi sia un territorio adeguato.
Il punto di fondo, che non va mai dimenticato, è che qualsiasi standard di posti letto è funzione del territorioper cui se il territorio non viene ripensato qualsiasi riduzione di standard rischia di essere una banale riduzione di assistenza. Se non si risolve questo problema di concomitanza, presumibilmente i problemi di mobilità cresceranno. Quanto al territorio (prima delibera punto 4,linee di indirizzo per lo sviluppo della rete territoriale) non c’è solo un problema di genericità, si intravedono vistose contraddizioni come quella tra l’idea di “rete territoriale” e il distretto definito come “macrostruttura” (sui limiti di questa concezione rimando alla parte 3 de “i mondi possibili della programmazione sanitaria(…) Mc Graw Hill 2012). Sorvolo le questioni che riguardano il lavoro, le professioni, le organizzazioni che ancora una volta sono visti come fantasmi incorporei come se non fossero “il servizio” che sono.
Concludo con quattro amichevoli suggerimenti:
· invertite l’ordine applicativo del riordino cioè partite dalla riorganizzazione del territorio al fine di rimodulare la funzione ospedaliera per non creare situazioni di abbandono;
· scrivete subito una nuova delibera performativa “adeguamento della rete territoriale a sostegno della rimodulazione della rete ospedaliera”;
· mettete mano ad un disegno di riforma complessivo del sistema che vada oltre la logica del riordino, dell’adeguamento, della rimodulazione e che affronti i problemi dei modelli, dei modi di essere, delle prassi, dei metodi, del lavoro… perché la sanità è fatta soprattutto da persone e non da cose;
· fate in modo che le persone…a partire dai cittadini….non siano “riordinati” nei loro bisogni di salute ma siano soggetti di riforma.
Buon lavoro.
Ivan Cavicchi
Ps: analoga analisi vale anche per il decreto n° 14 gennaio 2015 “riqualificazione e rifunzionalizzazione della rete ospedaliera-territoriale della regione Sicilia” (QS 26 gennaio 2015) per cui applicando la regola transitiva sussistono analoghi dubbi e valgono analoghe proposte.
Bene, adesso che abbiamo vinto iniziamo a parlare di cose serie. Iniziamo parlare di politica sanitaria, di persone che si rivolgono ai nostri servizi, all’innovazione sanitaria e non di chi sarà il nuovo Assessore alla sanità. Iniziamo a parlare di come mettere in ordine dal punto di vista ambientale il nostro – ormai quasi residuale – sistema industriale, di come l’economia ambientale possa portarci beneficio e buona crescita, di come sia possibile un nuovo sviluppo riducendo gli impatti ambientali ed anzi, facendo in modo che diventino un’opportunità e non un peso. Eccoci, dunque: con Sergio Chiamparino proprio perchè siamo convinti che sia possibile un nuovo modo di far politica. Anche se sarà difficile e non tutti la penseranno come noi. Noi ci siamo