Spulciando tra i programmi elettorali in Europa, ci si può imbattere in una proposta apparentemente curiosa riguardante la sanità. In sintesi l’idea è quella di trasformare le articolazioni corrispondenti alle nostre Asl in organi elettivi. In realtà l’idea non è così curiosa come potrebbe apparire e ne abbiamo traccia anche in Italia nell’opera di Giulio Maccacaro. fondatore di Medicina Democratica. Proprio oggi, nel pieno della discussione di deficit sanitari, di critica ai poteri dei Direttori Generali sempre più monocratici, di ingerenze della politica persino nella nomina dei primari degli ospedali, questa proposta non è certamente da scartare. Malgrado tutto, infatti, uno dei settori di spesa maggiormente delicati e certamente onerosi, rimane in mano diretta non tanto della politica, quanto dei politici senza nessun vero controllo da parte di chi fruisce dei servizi sanitari. Il fatto che chi amministra il settore locale sanitario debba rispondere direttamente ai cittadini senza interposizioni e debba presentare un ventaglio di soluzioni al giudizio degli stessi fruitori del servizio con possibilità di scelta, potrebbe configurarsi come una piccola rivoluzione positiva con una semplificazione tra chi governa un sistema e chi ne usufruisce, rendendo maggiormente responsabili anche i cittadini del territorio sulle scelte da compiere e sottraendo la nomina al clientelismo politico e a meccanismi oscuri da parte ad esempio dei Presidenti di Regione che continuano a non essere perfettamente chiari. Chiaramente questa è una traccia che deve essere maggiormente sviluppata per ciò che riguarda il nostro territorio e che necessita di limiti e contrappesi adeguati come obbiettivi di politica sanitaria nazionali condivisi e mantenimento di interesse pubblico. Ma sicuramente ha il pregio della chiarezza, della responsabilità dei cittadini di una comunità data, della possibilità di scelta tra diversi programmi, di elezione di tecnici con una certa conoscenza del territorio in questione e via discorrendo.
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
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Sempre per il tema elezioni e ambiente sarebbe interessante valutare non tanto il tasso di ambientalismo delle diverse formazioni, quanto che uso vorrebbero fare degli strumenti che le politiche ambientali pongono a disposizione.
Infatti esiste un ventaglio di opzioni che vanno dalla possibilità di creazione di nuovi posti di lavoro alla scelta di politiche economiche quali il passaggio dalle tasse sul lavoro a quelle sulle emissioni e diversi altri strumenti secondo gli sviluppi della scienza economica ambientale.
Un timido accenno era stato fatto in passato nel proporre qualcosa di simile al sistema del doppio dividendo. Per non cadere nella solita proposizione tipo “più lampadine per tutti” che lasciano il tempo che trovano dopo la nuova corsa alle centrali nucleari, ritengo interessante riproporre la domanda di Biorn Lomborg, “l’ambientalista scettico” che attraverso la creazione della Copenhagen Consensus Conference ha costruito un interessante discussione attorno ad un semplice quesito:
If the world would come together and be willing to spend, say, $50 billion EXTRA over the next five years on improving the state of the world, which projects would yield the greatest net benefits?
(in sostanza: se la terra avesse la possibilità e volesse spendere 50 milioni di dollari in più nei prossimi 5 anni per migliorare lo stato del mondo. quali progetti potrebbero avere i migliori benefici netti?). La domanda è sottile per diverse ragioni.
Oltre a definire una risorsa certa e determinata, senza il solito tormentone del dove prendo i soldi, ci chiede non quali interventi vorremmo fare, ma quali progetti possiedono il requisito del beneficio netto marginale, cioè quali progetti posseggono realmente la qualità dell’efficienza economica. In soldoni quali sono le azioni che ottimizzano meglio la spesa, allocano al meglio le risorse.
La risposta a questa domanda, ad esempio, porterebbe a definire una vera e propria lista di priorità a seconda dell’efficienza del progetto.
Chiaramente nel nostro caso dovremmo caratterizzarla più precisamente per il settore ambiente, lasciando però che le priorità che scaturirebbero contengano anche altri tipi benefici extrambientali.
Questa ritengo sia la domanda corretta che la politica deve porsi nel momento in cui decide di destinare le risorse, sempre poche comunque, che ha a disposizione.
Quando parliamo di ambiente non possiamo non parlare di salute. Un esempio fondamentale è il legame che esiste tra la sfida energetica e la tutele della salute. Uno dei nodi principali infatti non sembra essere tanto la possibilità di reperire energia, bensì le conseguenze dell’utilizzo di fonti fossili energetiche alle quali ci stiamo affidando in modo “eccessivo” e i relativi impatti dannosi. Quindi uno dei primi passi da compiere è l’individuazione degli effetti sull’uomo e dei fattori scatenanti. Richard Klausner individua alcuni punti su cui interrogarsi preventivamente nella valutazione delle differenti possibilità di scelta:
- quali saranno gli effetti
- in che modo si manifesteranno
- quale sarà la loro portata
- quando si manifesteranno
- chi verrà colpito in misura maggiore.
Esistono strumenti scientificamente consolidati per rispondere a queste domande?
Uno degli strumenti più raffinati che viene impiegato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nelle sue rendicontazioni sullo stato globale della salute è il DALY, sigla che significa Disability-Adjusted Life Years. Questo strumento permette di “misurare” il peso della malattia in una comunità attraverso la combinazione di diversi parametri: perdite dovute a morte prematura e perdite di vita sana dovuta a forme di inabilità. Un singolo DALY è uguale alla perdita di un anno di vita in buono stato di salute. Tra le diverse funzioni, il DALY serve anche a selezionare e misurare il costo degli interventi per la prevenzione e/o cura di determinate malattie, quindi anche per la definizione delle priorità in sanitarie e per la scelta dell’attribuzione di risorse finanziarie e umane.
Una proposta che sostengo per la prossima legislatura regionale in Piemonte è il rafforzamento di questo tipo di parametri per valutare in maniera più scientifica, comprendere gli impatti di ciò che scegliamo dal punto di vista ambientale e disegnare le priorità in sanità derivanti dalle scelte ad esempio energetiche che ci apprestiamo a compiere.
Lo spostamento di risorse pubbliche verso attori “privati” può avere aspetti sfuggenti. Tra i meno conosciuti c’è quello delle conoscenze prodotte all’interno dei sistemi sanitari: la necessaria costruzione del nostro sapere scientifico che progredisce e ci fa avanzare nella capacità di rispondere ai bisogni di salute della popolazione. Oggi questa capacità viene sistetizzata nel termine di “Educazione Continua in Medicina” o ECM. Sembrerebbe normale che tale sistema che ricomprende il sapere sulla salute, debba trovare delle forme di gestione condivise e all’interno di un sistema universalistico e pubblico. Anche solo per il semplice fatto che i contenuti formativi sono prodotti nella stragrande maggioranza dei casi da professionisti che lavorano nel sistema sanitario nazionale il quale, tra l’altro, fornisce con le proprie strutture gli strumenti e i dati utilizzati per costruire questo insieme di conoscenze. Nei fatti l’uso dell’accumulo delle conoscenze e l’indipendenza culturale non è proprietà pubblica che in percentuale minima: molto spesso il sistema sanitario si trova non solo ad utilizzare, ma a dover acquistare contenuti formativi generati da professionisti che sono propri dipendenti e che cedono ai privati – ad agenzie di formazione o direttamente alle industrie – le conoscenze maturate. Riepiloghiamo per chi non credesse ai propri occhi: 1) il sistema sanitario pubblico genera la gran parte delle conoscenze aggiornate attraverso i propri professionisti; 2) gli stessi professionisti vendono ai sistemi privati tali conoscenze a provider privati; 3) gli altri professionisti e le aziende sanitarie stesse acquistano conoscenze dal sistma privato per l’aggiornamento continuo obbligatorio! Questa semplice equazione è desumibile dai dati di AGENAS: il numero di eventi accreditati a livello nazionale per l’aggiornamento degli operatori sanitari è aumentato negli ultimi tre anni, parallelamente all’emergere di nuovi bisogni formativi avvertiti dal personale sanitario, messo a dura prova nei tre anni di emergenza pandemica: riferendoci – ripetiamo – alla sola formazione accreditata a livello nazionale, si è passati da 17 mila eventi nel 2020 a quasi 28 mila (2021) e ai 32.567 del 2022. Il ricorso a provider privati di educazione continua a essere prevalente: negli ultimi tre anni la percentuale di eventi sponsorizzati è sempre stata superiore al 50 per cento. Ancora peggiore è l’offerta di eventi formativi rivolta ad altri operatori sanitari: per esempio, i dati Agenas 2020-2022 dicono che gli eventi accreditati a livello nazionale rivolti agli infermieri sono meno della metà di quelli accreditati per i medici, nonostante la popolazione infermieristica sia molto più numerosa. Un tentativo di arginare tale sistema viene compiuto dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) e diversi ordini provinciali dando un contributo importante nel proporre diversi eventi centrati soprattutto su tematiche riguardanti la deontologia professionale e la bioetica. Ma nel complesso l’investimento pubblico nella formazione potrebbe essere in calo: in particolare, nel 2020 la spesa per la formazione si è ridotta del 19.3% con flessioni anche superiori al 40 per cento in molte regioni.
Altra segnalazione in merito sono i risultati di una survey pubblicata sul Journal of European CME – che raccontano come la maggior parte delle società scientifiche in ambito medico ha cercato finanziamenti esterni per congressi (93 %) e corsi di formazione in presenza (86 %). I finanziamenti per i congressi sono arrivati da fonti diverse ed erano giustificati a fronte dell’inserimento nell’agenda del meeting di sessioni organizzate dall’industria, come i simposi satellite previsti al di fuori del programma scientifico. Le attività online sono state finanziate per lo più dall’industria (79 %) mentre le attività sincrone ( i webinar dal vivo) lo sono state di meno (64 %). Dalla stessa indagine, le società scientifiche lamentano problemi legati alle risorse, alla difficoltà di fare una programmazione a medio termine delle attività formative e alla mancanza di competenze digitali nel pianificare e realizzare dei corsi. Le società hanno anche sottolineato come il gran numero di eventi organizzati da altre organizzazioni renda più difficile raggiungere un numero ampio di operatori sanitari”. In sostanza i provider privati si stanno sostituendo in maniera pervasiva alle agenzie pubbliche di formazione. Chiaramente se la formazione di chi opera nel sistema sanitario nazionale diventa territorio di conquista di soggetti privati non sarà una sorpresa vedere l’attuazione non dei genuini bisogni formativi di chi lavora nel mondo della salute ma la proposizione e la spinta all’utilizzo di un insieme di modelli diagnostici, di terapie e dispositivi medici che possono ricongiungersi agli interessi degli stessi provider privati. Oltre all’impegno squilibrato verso aree medico-chirurgiche più attrattive per le ricadute economiche delle industrie, cosa già nota per la farmaceutica. In sostanza si crea una vera e propria disuguaglianza tra i diversi settori specialistici, amplificando le disuguaglianze anche tra il personale dei centri con maggiore e minore volume di attività (i primi sono più corteggiati dagli sponsor perché hanno una potenzialità prescrittiva maggiore), malgrado i bisogni sanitari della popolazione non siano diversi su tutto il territorio. Non ultimo il fatto che tale sistema porta inevitabilmente a differenze molto sensibili nelle diverse zone geografiche del nostro Paese.
Ulrich Beck l’ha chiamata “società del rischio” e credo avesse ragione. Bisognerebbe rispolverare con interesse alcune delle sue tesi, proprio nel momento in cui vorrebbero farci credere che esista un’emergenza della mortalità sul lavoro. Forse però non è un’emergenza, ma queste morti sono connesse con il nostro modello di sviluppo che supinamente stiamo continuando a scegliere, sono intrinseche ad esse. Perché i rischi cambiano anche la loro natura: non derivano più dall’esterno, dal non-umano, dalla fatalità naturale, ma dipendono da decisioni. Sono il riflesso di azioni ed omissioni dell’uomo stesso, la conseguenza di forze produttive fortemente sviluppate. La produzione delle condizioni di vita della società nella sua interezza diventa quindi un problema ed oggetto di ripensamento: la società deve venir messa a confronto con se stessa. Paradossalmente infatti sembra quasi che la fonte del pericolo non sia più l’ignoranza ma la stessa conoscenza, non un dominio carente della natura, ciò che si sottrae alla capacità dell’uomo, ma il sistema di norme e di vincoli oggettivi stabilito con la crescita industriale. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che la società in questo sviluppo ha seguito un percorso “suddiviso”, dove il sistema politico-amministrativo e quello tecnico-economico si sono sviluppati in due rami diversi. Da una parte il principio della partecipazione dei cittadini, l’elaborazione condivisa delle decisioni con regole democratiche e l’esercizio del potere politico e del comando che devono derivare dal consenso dei governati. Dall’altro lo sviluppo di un qualcosa che viene percepito come non-politico, ma è invece tutto politico. Il progresso tecnico è equiparato acriticamente a quello sociale e la direzione di sviluppo e i risultati tecnici seguono inevitabili vincoli oggettivi tecnico-economici, dove gli effetti negativi trovano giustificazione nell’innalzamento degli standard di vita. Il problema è che questo processo è completamente sottratto al vaglio politico, possiede un potere di realizzarsi immune alla critica e infinitamente più veloce rispetto alle procedure democratico-amministrative. Dice efficacemente lo stesso Beck: “il progresso sostituisce il voto. Più ancora diventa un sostituto dei problemi, un tipo di consenso preventivo su fini e conseguenze che rimangono ignoti ed innominati. (…) Solo una parte delle competenze decisionali che strutturano la società è legata assieme nel sistema politico e sottoposto ai principi della democrazia parlamentare. Un’alta parte è sottratta alle regole dei controlli e della giustificazione pubblica e delegata alla libertà di investimento delle imprese (…). I cambiamenti sociali sono rimossi come effetti collaterali latenti delle decisioni, dei vincoli e dei calcoli tecnico-scientifici. Ci si afferma sul mercato, si utilizzano le regole di realizzazione dei profitti e così facendo si rovesciano le condizioni della vita quotidiana.(…) Da un lato, le istituzioni del sistema politico presuppongono, per ragioni funzionali e sistemiche, che il ciclo produttivo di industria, tecnologia e economia. Dall’altro ciò fa sì che sotto tale copertura giustificativa venga data per scontata la trasformazione degli ambiti di vita sociale in contraddizione con le regole della democrazia: conoscenza dei fini della trasformazione sociale, discussione, voto, consenso.” Anch’io la penso come Ewald la cui teoria segna un significativo cambiamento: la costruzione del welfare non deve essere interpretata in termini di mantenimento dell’ordine sociale o di miglioramento della produttività nazionale, ma consolidarlo, ricostruirlo come fornitura di servizi (assistenza sanitaria), creazione di schemi assicurativi e regolazione dell’economia e dell’ambiente in termini di creazione della sicurezza. Questo nuovo welfare è il nostro compito.