Un testo molto interessante di Marco Boato su cui riflettere.
(…) Ecco, oggi Daniel Cohn-Bendit, che non è un estremista, ma un riformatore, un innovatore, e che ha una cultura di governo, e la capacità di sondare il terremoto sociale che è in corso in Europa, è riuscito a mettere José Bovè – più volte finito anche in carcere, movimentista fondamentalista ma autentico, legato alle questioni dell’agricoltura, degli Ogm, dell’agricoltura biologica, della lotta contro i grandi padroni delle multinazionali – insieme con il fondatore di Greenpeace in Francia, con Eva Joly – ex magistrato e ora probabile candidata alle presidenziali del 2012 – e con le varie anime dell’ ecologismo francese, che soltanto in piccola parte avevano avuto finora uno sbocco nei Verdi francesi, i quali pure adesso hanno una leader con un certo carisma: Cécile Duflot , una donna molto giovane che ha saputo agganciare questo ponte che le gettava Cohn-Bendit. Il quale è lui stesso un verde, è stato per due legislature e ora è per la terza volta il co-presidente dei Verdi al Parlamento europeo. Quindi non è un leader che dall’esterno assume queste iniziative “di rottura”, è uno che dall’interno ha saputo mettere in discussione l’eccessivo minoritarismo, l’eccessiva chiusura dei Verdi francesi, dilaniati anche loro da diatribe interne come succede spesso nei piccoli partiti, ed è riuscito a costruire una rete orizzontale, “Europe Écologie” appunto, mettendo insieme tutti questi segmenti di una nuova ecologia politica vista in una chiave che supera il vecchio e tradizionale ambientalismo. Non lo nega, anzi ne fa propri tutti i contenuti, ma lo supera in una visione anche fortissimamente europeista, proprio in una Francia che è stata responsabile dell’affossamento della Costituzione europea (anche a causa delle divisioni interne ai socialisti) (…).
Dall’Europa sono arrivati in questi anni segnali drammatici, sia sul versante economico che su quello sociale e politico. Anche dove i partiti socialdemocratici erano tradizionalmente forti, come la Svezia e la Germania, ma anche la Francia, la crisi delle socialdemocrazie appare ormai irreversibile.
Stiamo dunque vivendo una fase storica di grandissimo cambiamento e di grandissima difficoltà, sia a livello europeo che, per molti aspetti, anche a livello mondiale. Il quadro in cui intendo inserire la mia riflessione sull’ecologia politica è quello in cui, soltanto una quindicina di anni fa, la maggior parte dei paesi europei era guidata da governi che in Italia definiremmo di sinistra o di centro-sinistra – socialisti, socialdemocratici, laburisti – mentre oggi la stragrande maggioranza dei paesi europei ha governi che definiremmo di destra o di centro-destra: conservatori, liberali, nazionalisti, e così via. Oggi la Svezia, che era un po’ il fiore all’occhiello della socialdemocrazia europea, è governata dalla destra, e questo ci fa capire quanto profonda sia stata la svolta iniziata con la caduta del muro di Berlino del 1989, e quanto forte sia l’ondata, crescente negli ultimi dieci anni, di quello che potremmo definire genericamente un populismo di destra.
Il populismo di destra in Europa e negli USA
In Europa, il populismo di destra ha avuto successo facendo leva su questioni che riguardano la crisi economica, la disoccupazione, la crisi del welfare, l’insicurezza, la paura suscitata dagli immigrati e dalla società multietnica. Pochi mesi fa persino la cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato la fine della società multiculturale in Germania. Eppure la Merkel non è una leader populista di destra: è sì una leader conservatrice, ma ha una cultura politica diversa, cristiano-democratica. Siamo comunque di fronte alla transizione da un’Europa prevalentemente “socialdemocratica” ad una prevalentemente “conservatrice”. Il termine “conservatore” è tuttavia inadeguato, perché in alcuni casi le forze di centro o di centro-destra hanno dimostrato di essere più innovative delle forze della sinistra, le quali sono diventate spesso a loro volta forze conservatrici rispetto al mercato del lavoro e alla sicurezza sociale costruiti negli anni del secondo dopoguerra.
Ora, in questo quadro, ovviamente molto semplificato, ritengo vada collocata anche la sconfitta del presidente americano Barack Obama alle recenti elezioni di mid-term del novembre 2010. Obama aveva vinto le elezioni presidenziali come una grandissima speranza e ha rappresentato una grandissima innovazione, non solo politica ma anche socio-culturale. Si è trovato però a gestire faticosamente l’eredità delle due guerre di George Bush jr. e una terribile crisi economica maturata prima, ma esplosa proprio durante i suoi primi due anni di mandato. Il populismo di destra – in questo caso rappresentato soprattutto dai cosiddetti tea party – è stato determinante in questa sconfitta, che forse non sarà definitiva (e c’è da augurarselo); ma non si era mai più verificato dal 1948 un tale spostamento di seggi dai democratici ai repubblicani. Se noi ci voltiamo indietro a ricordare cos’è stata la speranza straordinaria che ha suscitato l’elezione di Obama in America e nel mondo, il tracollo recente è un fenomeno di tali proporzioni, che lascia allibiti.
L’ecologia politica oltre l’ambientalismo
Comunque, a parte gli USA, in questo quadro, finora più nel Nord-Europa e molto meno nel Sud-Europa – cercando di non usare eccessiva enfasi propagandistica, ma guardando la situazione più da osservatore politico, sociale e culturale -, l’unico elemento che vedo di innovazione, di cambiamento e anche di speranza rispetto al futuro è la crescita apparentemente inarrestabile (dico “apparentemente”, perché non si sa mai cosa potrà davvero succedere) dei vari soggetti politici ecologisti e verdi, sostanzialmente accomunati dai temi dell’ecologia politica e della maturazione di una nuova soggettività politica, culturale ed anche etica.
Penso che questo fenomeno dell’ecologismo politico, che si è sviluppato ed accresciuto negli ultimi anni, sia qualcosa di più dell’ambientalismo classico, sia qualcosa che riguardi nel suo complesso anche l’ecologia culturale, l’ecologia della mente, l’ecologia ambientale, l’ecologia sociale; sia cioè qualcosa che non riguarda più soltanto l’aspetto pur importantissimo, ma delimitato, dell’ambientalismo storico come l’abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa. Questo nuovo ecologismo politico ha sviluppato l’ambizione di essere non una nuova ideologia, ma una nuova visione culturale e un nuovo progetto politico, che cerca di affrontare tutte le principali questioni della società contemporanea: da quelle ambientali a quelle economiche, da quelle sociali a quelle culturali, da quelle etiche a quelle istituzionali. Perché c’è anche un’ecologia delle istituzioni: questioni come la partecipazione politica, la rappresentanza, la trasparenza e l’”anti-casta” – per usare un termine che tuttavia a me non piace molto – sono temi che fanno parte di questa visione più generale dell’ecologia politica.
La casta e l’anticasta: l’Italia che funziona
L’anticasta è in realtà il titolo di un bel libro (EMI, 2010) curato da Marco Boschini e Michele Dotti: si tratta di una raccolta di saggi di vari autori, che in qualche modo “attraversano” questa nuova ecologia politica in Italia. Per ora l’attraversano soprattutto sul piano culturale e per quanto riguarda alcuni aspetti amministrativi a livello locale, ma di grande rilevanza. Questo libro è nato per rispondere al singolare fenomeno provocato da La casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo: doveva costituire una demolizione della “casta”, ma paradossalmente ha rappresentato un’ulteriore incentivazione all’antipolitica, un ulteriore distacco dei cittadini non dalla casta, ma dalla politica stessa, e fonte per una ulteriore disillusione, per una sorta di “riflusso”, si sarebbe detto in altri tempi. Invece L’anticasta vuole rappresentare e dare la parola a “ l’Italia che funziona” (come recita emblematicamente il sottotitolo), ed è un universo sommerso caratterizzato soprattutto dai temi della nuova ecologia politica.
Tuttavia, quando si parla di ecologia politica, più che un prioritario riferimento all’Italia (dove il fenomeno è presente, ma ancora assai poco visibile, anche a causa delle gravissime condizioni della democrazia nell’informazione), viene immediato il collegamento all’esperienza di Daniel Cohn-Bendit in Francia con “Europe Écologie”. In Francia, ma non solo. Questo nuovo fenomeno politico e socio-culturale ha portato, ad esempio, nel 2010 gli ecologisti della Lettonia al 19% dei voti nelle elezioni per il Parlamento, così come l’ecologista Marina Silva ha conquistato il 20% nelle elezioni presidenziali in Brasile, pur tenendo presente che Marina Silva ha ottenuto il 20% sulla sua figura fortemente carismatica, mentre il corrispettivo per il partito dei Verdi brasiliani sarebbe attorno al 5%. In ogni caso, Marina Silva ha catalizzato uno straordinario consenso, dovuto in gran parte alle delusioni che il governo di Lula, di cui lei era stata il Ministro dell’ambiente, aveva provocato sui temi ambientali ed ecologici.
I Verdi e gli ecologisti in Europa
Nel resto dell’Europa centro-settentrionale, a parte la Francia dove hanno superato il 16%, i Verdi e gli ecologisti hanno ottenuto un grande successo di consensi, con percentuali ben oltre il 10%. Lo si è visto in paesi come l’Inghilterra, dove il sistema elettorale rende quasi impossibile per un partito medio-piccolo eleggere un parlamentare. Però adesso c’è una verde – la portavoce nazionale Caroline Lucas, che era già stata eletta al Parlamento europeo – nella Camera dei Comuni, perché nel suo collegio uninominale ha vinto, conquistando oltre il 30% dei voti. In paesi come la Danimarca, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e soprattutto la Germania e l’Austria, i Verdi sono andati ormai a percentuali superiori al 10%. In Germania hanno affrontato le ultime due tornate elettorali – le europee e l’elezione del Bundestag, che è la Camera bassa tedesca, l’unica eletta direttamente – e hanno ottenuto percentuali ampiamente superiori al 10%, notevolmente superiori in alcuni Länder. E in alcune città i Grünen hanno ottenuto la maggioranza alle elezioni amministrative e ora governano. Ma oggi i sondaggi – i sondaggi non sono voti reali, però sono quanto meno segni di tendenza – stanno dando i Grünen intorno al 20-25%, cioè più del doppio dei consensi che finora hanno realmente ottenuto, e in città come Berlino, nei sondaggi, arrivano a percentuali del 40%, cioè a numeri francamente incredibili.
Ho parlato del Centro-Nord Europa, ma c’è un’eccezione, ed è appunto la Francia, che è un paese mediterraneo, come la Spagna, come l’Italia, come la Grecia, come il Portogallo, che, pur non essendo un paese mediterraneo, è comunque un paese del Sud-Europa. In questi paesi i Verdi hanno storicamente fatto sempre enorme fatica a decollare, non raggiungendo quasi mai percentuali al di sopra del 2-3%, anche se poi i primi Verdi europei ad entrare al governo nazionale sono stati paradossalmente i Verdi italiani, nel 1996, con Romano Prodi.
Il ruolo di Daniel Cohn-Bendit ed “Europe Écologie”
Il Daniel Cohn-Bendit di oggi (ma molti lo ricordano ancora come giovanissimo leader del Maggio ’68 parigino), un uomo con un enorme prestigio a livello politico e anche culturale, ha voluto riprendere l’iniziativa in Francia, avendo come primo (non unico) interlocutore Les Verts francesi, che nelle presidenziali del 2007 vinte da Nicolas Sarkozy – elezioni dove è comunque difficile avere grandi consensi – avevano ottenuto solo l’1,57%, cioè percentuali analoghe a quelle italiane (ed erano così arrivati al loro minimo storico). Cohn-Bendit è riuscito a mettere in atto un fenomeno un po’ simile a quello di Marina Silva in Brasile, con l’aggiunta però che, attorno alla sua figura, e attorno al rassemblement “Europe Écologie”, è riuscito a raccogliere i filoni più diversi dell’ecologismo politico francese, inteso nel senso in cui ne ho parlato all’inizio di questa riflessione: ecologia ambientale, ecologia sociale, ecologia culturale e della mente, ecologia urbana, ecologia politica, ecologia delle istituzioni.
Ecco, oggi Daniel Cohn-Bendit, che non è un estremista, ma un riformatore, un innovatore, e che ha una cultura di governo, e la capacità di sondare il terremoto sociale che è in corso in Europa, è riuscito a mettere José Bovè – più volte finito anche in carcere, movimentista fondamentalista ma autentico, legato alle questioni dell’agricoltura, degli Ogm, dell’agricoltura biologica, della lotta contro i grandi padroni delle multinazionali – insieme con il fondatore di Greenpeace in Francia, con Eva Joly – ex magistrato e ora probabile candidata alle presidenziali del 2012 – e con le varie anime dell’ ecologismo francese, che soltanto in piccola parte avevano avuto finora uno sbocco nei Verdi francesi, i quali pure adesso hanno una leader con un certo carisma: Cécile Duflot , una donna molto giovane che ha saputo agganciare questo ponte che le gettava Cohn-Bendit. Il quale è lui stesso un verde, è stato per due legislature e ora è per la terza volta il co-presidente dei Verdi al Parlamento europeo. Quindi non è un leader che dall’esterno assume queste iniziative “di rottura”, è uno che dall’interno ha saputo mettere in discussione l’eccessivo minoritarismo, l’eccessiva chiusura dei Verdi francesi, dilaniati anche loro da diatribe interne come succede spesso nei piccoli partiti, ed è riuscito a costruire una rete orizzontale, “Europe Écologie” appunto, mettendo insieme tutti questi segmenti di una nuova ecologia politica vista in una chiave che supera il vecchio e tradizionale ambientalismo. Non lo nega, anzi ne fa propri tutti i contenuti, ma lo supera in una visione anche fortissimamente europeista, proprio in una Francia che è stata responsabile dell’affossamento della Costituzione europea (anche a causa delle divisioni interne ai socialisti).
Nel corso dei mesi di ottobre e novembre 2010 si sono realizzate in Francia una serie di convention regionali e nazionali, per dare finalmente una prima struttura politico-organizzativa a “Europe Écologie-Les Verts”, che prima era solo un’alleanza in un progetto comune. È interessante che, mentre affrontava queste esperienze così fortemente innovatrici (alle europee sono seguite, con successi analoghi, anche le regionali francesi), Daniel Cohn-Bendit sia riuscito anche a pubblicare due volumetti di riflessione politica e teorica, editi anche in Italia: Che fare? Trattatello di fantasia politica ad uso degli europei (Nutrimenti, 2009) e Osare di più. Morte e rinascita della politica (edizioni dell’Asino, 2010), permettendo e stimolando un confronto più ampio e ambizioso.
La fine del secolo socialdemocratico
Alla base di questo successo, sicuramente ha un peso anche il fatto che questo nuovo ecologismo sia percepito, almeno da molti, come un superamento della destra e della sinistra concepite in modo tradizionale. In realtà, debbo ricordare che questo aspetto stava già nelle origini dell’ecologismo politico anche in Italia. Oggi si usa riciclare la frasetta “non siamo né di destra né di sinistra, ma avanti”, attribuendola ad Alexander Langer, ma è una semplificazione un po’ banale e Langer non l’ha mai detta in questi termini. La sostanza del problema è però che la questione ecologica – come ho già detto, qualcosa di più complesso, di più largo, di più onnicomprensivo della sola questione ambientale – rappresenta un filone politico-culturale che va al di là di quelle contrapposizioni ideologiche che hanno la loro origine alla fine dell’ Ottocento, per affermare invece una sua connaturata trasversalità sociale, culturale e politica e per la sua capacità di rapportarsi con l’intera società.
Le ideologie tradizionali sono arrivate da tempo “al capolinea”, e questo riguarda anche l’ideologia socialdemocratica, che pure tanti meriti storici ha avuto. Ralf Dahrendorf, il sociologo e politologo anglo-tedesco morto nel 2009, lo aveva scritto in un libro di un quarto di secolo fa, intitolato La fine del secolo socialdemocratico. Il fenomeno socialdemocratico, tutt’altro che negativo, stava esaurendo la spinta propulsiva già all’inizio degli anni ‘80, e degli osservatori attenti, non settari, erano in grado di capirlo da tempo. E, come sempre succede, questi fenomeni vengono compresi e interpretati dalle intelligenze più lungimiranti, ma poi ci mettono decenni per dispiegarsi pienamente nella concretezza delle situazioni storico-politiche. Infatti Ralf Dahrendorf faceva queste riflessioni mentre ancora la socialdemocrazia “imperava”, governando tre quarti dell’Europa. Oggi tre quarti dell’Europa, forse più, sono governati dal centro o dalla destra.
La caduta del muro di Berlino nel 1989 si pensava che avrebbe spianato il terreno per la socialdemocrazia, e invece le è caduto addosso… Fondamentalmente perché non ha fatto i conti con la propria storia e con i profondi processi di trasformazione indotti dalla fine del sistema comunista sovietico. D’altra parte, se si guarda all’Italia, dal punto di vista sociale e amministrativo per molti aspetti la vera socialdemocrazia era rappresentata dal Partito Comunista, nonostante il suo nome. E il PCI ha poi cambiato vari nomi, ma i suoi gruppi dirigenti (anche quelli delle generazioni allora più giovani) non sono mai riusciti a fare davvero i conti con la propria storia, e le conseguenze si vedono tuttora.
La “conversione ecologica” di Alexander Langer
Per quanto riguarda il difficile percorso dell’ecologismo politico in Italia, resta ancor oggi di grande attualità il riferimento al pensiero ed all’impegno politico-culturale di Alexander Langer, nonostante siano passati ormai oltre quindici anni dalla sua scomparsa (per scelta volontaria, il 3 luglio 1995). La “conversione ecologica” – come l’ha teorizzata Alex Langer, che in realtà non era un teorico ma un militante e dirigente politico il quale rifletteva sempre sui fenomeni reali – ha a che fare proprio con un cambiamento profondo della società e delle persone. Un cambiamento che riguarda la cultura, gli stili di vita, i modelli di comportamento sociale, e tutto questo visto non in chiave imperativa – come potrebbe essere attraverso un immaginario governo autocratico ecologista che imponga limiti e modelli -, ma proposto e praticato come la desiderabilità sociale e culturale di un cambiamento profondo, che quindi richiederà anni e decenni. Langer è morto ormai 15 anni fa, ma queste riflessioni, che scriveva alla fine degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, oggi sono ancora più attuali di quando lui le affrontava per la prima volta (i suoi scritti principali sono raccolti nel volume Il viaggiatore leggero, più volte edito postumo da Sellerio).
Tornando alla Francia, va detto che “Europe Écologie” ha saputo davvero tener conto di quello che è stato seminato negli ultimi decenni in Europa dall’ecologismo politico e dalla critica delle ideologie tradizionali. In Francia però questo processo non aveva ancora dato un prodotto politico adeguato. Sto parlando proprio di soggetti politici, non di associazioni, che sono altamente meritorie, ma di per sè fanno un lavoro diverso da chi fa politica. Su questo piano, sia pure con exploit come quelli delle elezioni europee (sia del 1989 che del 1999) in cui ottennero il 10% (con nove euro-deputati), Les Verts poi ripiombarono alle percentuali precedenti intorno al 2-3%. Daniel Cohn-Bendit dal 2009 in poi ha saputo recuperare con grande successo e con una forte originalità di pensiero la dimensione della trasversalità, superando le vecchie divisioni e contrapposizioni ideologiche. Tant’è vero che nella prima fase, dopo l’exploit delle europee (quando ha eguagliato i socialisti francesi, superando il 16%) ha cercato di dialogare – non dico di allearsi, ma di dialogare -anche con Nicolas Sarkozy, il quale appena eletto alla presidenza della Repubblica aveva promosso gli Stati generali dell’ambiente. Poi purtroppo la maggior parte dei risultati positivi usciti dagli Stati generali dell’ambiente sono rimasti lettera morta, così come è avvenuto per la maggior parte delle proposte uscite da quella Commissione sulle riforme, di cui aveva fatto parte anche Franco Bassanini.
A cosa serve l’ecologia politica
D’altra parte “Europe Écologie” ha dimostrato davvero la capacità di parlare con tutti i settori sociali, ovviamente dando identità a un soggetto politico ecologista ed europeista attraverso precise ed assai elaborate proposte programmatiche. La sua esperienza è, dal punto vista politico-culturale e anche sociale, forse la più innovativa che si sia verificata in Europa, superando per alcuni aspetti i Grünen tedeschi. E non a caso l’esperienza francese ha rapidamente conquistato un consenso che ha eguagliato e superato le soglie che i Verdi tedeschi hanno impiegato trent’anni anni per raggiungerle. Adesso bisognerà vedere se questo processo avrà un suo aspetto “durevole”, per usare un’espressione cara agli storici francesi. Personalmente penso di sì, proprio perché – partita come fenomeno legato a una forte leadership anche carismatica, ma non utopistica, non massimalistica, non fondamentalista – “Europe Écologie” si sta dimostrando capace di diventare molto pragmatica, molto riformatrice, e fortemente innovativa sul piano culturale.
Quindi la crisi economica in alcuni paesi europei sposta una parte della società verso un populismo di destra, e un’altra parte, stante la crisi della socialdemocrazia, trova nell’ecologismo una sua forma di rappresentanza e di prospettiva politico-culturale innovatrice. In questo quadro europeo nell’arco di vent’anni è successo che: primo, si è passati da una maggioranza socialdemocratica ad una maggioranza di destra, caratterizzata prevalentemente da un populismo di destra; secondo, anche dove al governo c’è una destra liberale o conservatrice, ci sono fenomeni di populismo di destra che stanno crescendo a destra di questi governi di destra (sta succedendo in Germania, Austria, Belgio, Olanda e ora di nuovo in Francia con Marine Le Pen); e, terzo, contemporaneamente, assistiamo alla crisi epocale della socialdemocrazia. In questo panorama, dunque, l’ecologismo politico sta rappresentando l’unico elemento di innovazione, che da solo ovviamente non risolverà i problemi, da solo non riuscirà certo a governare i paesi, salvo a livello locale, ma costituisce già un termine di confronto e di paragone che costringe anche le altre forze politiche, sia di destra che di sinistra, a rapportarsi con queste nuove tematiche, assolutamente decisive per un futuro sostenibile.
È quanto sta succedendo per l’appunto in Francia, dove “Europe Écologie” non solo è riuscita probabilmente a recuperare settori di consenso potenzialmente populisti che avrebbero potuto finire con la destra, ma ha saputo condizionare pesantemente anche i socialisti francesi, ai quali la lezione è servita, perché i socialisti francesi, che hanno attraversato una crisi spaventosa, sono adesso in una fase di discussione al loro interno per cercare di capire cosa stia succedendo e come uscirne. E la stessa cosa sta accadendo altrove, perché la Merkel in Germania ed anche Cameron in Gran Bretagna sembrano molto più attenti alle questioni ecologiche e ambientali di qualunque governante o oppositore italiano, di destra o di sinistra. In questi paesi europei anche i governi di destra o di centro-destra, conservatori o liberali che siano, affrontano i problemi ambientali ed ecologici in modo aperto, li inseriscono ai vertici della loro agenda politica, grazie, a mio parere, al fatto non solo che i problemi esistono e vanno affrontati, ma che c’è l’emergenza di un soggetto politico ecologista nuovo, come forza, come incidenza, come consenso, che impone a tutti, sia a sinistra che a destra, di fare i conti con questa realtà. In Italia tutto questo non sta avvenendo.
Il conflitto di classe e la disgregazione sociale
Una perplessità che può sorgere legittimamente è questa: le radici della sinistra e della destra, che arrivano fino all’Ottocento, affondano nel conflitto di classe. Il populismo di destra è una risposta che cerca di mettere da parte il conflitto di classe. Non a caso questo populismo di destra mette insieme strati sociali molto diversi. Sembra che l’ecologismo politico, nel dichiarare la propria trasversalità, faccia altrettanto. Ma in realtà il conflitto di classe permane. Chi se ne occuperà?
Il conflitto di classe permane, non solo, ma negli ultimi decenni abbiamo una divaricazione sociale enormemente più radicalizzata di quanto ci fosse prima. Quello che cambia sono le forme in cui questo si manifesta, cioè la frantumazione sociale, la perdita di centralità della fabbrica, la decomposizione anche dei soggetti politici e sindacali, che in qualche modo dovrebbero rappresentare questo conflitto. Fenomeni di iper-arricchimento, prima di tutto sul piano finanziario, ma anche di molti manager, a fronte di un progressivo impoverimento di strati sociali – occupati, disoccupati, sotto-occupati, precari, marginali, ceto medio che si impoverisce – non c’erano stati in questa dimensione nei decenni precedenti. Il problema è che tutto questo avviene in presenza di una grande frammentazione sociale, di un certo sbandamento culturale e della mancanza di riferimenti politici
Ad esempio, nel Nord-Italia la basa sociale della Lega è prevalentemente di classe operaia, popolare, proletaria. Nelle fabbriche del Nord, anche se non in tutte ovviamente, oggi ci sono molti operai della CGIL che votano Lega. Ma mi ricordo che quando ancora non esisteva la Lega Nord ed esistevano solo le varie leghe regionali nascenti, a metà degli anni Ottanta, da una ricerca dell’Istituto Gramsci veneto emergeva che una parte del consenso popolare alla Liga Veneta, che stava nascendo allora, veniva proprio dalla base del Partito Comunista, cioè da gente che in precedenza aveva sempre votato Partito Comunista. Questo per dire che non è un fenomeno solo del terzo millennio, è un fenomeno che ha cominciato a costruirsi ben prima, ed a scavare nelle basi popolari del Partito Comunista (e della Democrazia Cristiana), tant’è vero che l’esplosione della Lega avviene quando crolla il vecchio sistema politico, subito dopo il 1989.
Quando si pensa alla crisi della sinistra, alla fuga degli operai, ci si dimentica spesso che in Italia ci sono alcuni milioni di persone, almeno due milioni e mezzo di immigrati, forse di più, che fanno i lavori peggiori, che si sentono sfruttati fino in fondo, e che non hanno né diritto di voto, né rappresentanza organizzativa, né conoscono o vedono riconosciuti i propri diritti. Antonio Gramsci diceva che i partiti sono la nomenclatura delle classi, il Partito Comunista era il partito della classe operaia. Oggi non potrebbe essere così per nessuno, e non avrebbe neanche senso, però dal non essere più “classisti” in senso tradizionale al perdere ogni legame con gli strati popolari c’è un vero e proprio baratro. E bisogna ricordarsi che la DC all’epoca si definiva “interclassista”, proprio perché metteva insieme l’operaio cattolico con l’imprenditore cattolico.
La rivoluzione silenziosa e i valori “post-materiali”
Adesso c’è il timore che anche l’ecologismo politico rischi di diventare un movimento che non riesce a dialogare con la “parte bassa” della società. Questo rischio c’è, anche se in questo momento non lo ritengo il rischio maggiore, lo vedrei più in una prospettiva di crescita. L’ecologismo, non solo in Italia, è stato prevalentemente un fenomeno “post-materiale”. È stato cioè un riconoscimento politico, culturale, anche intellettuale e teorico, oltre che pratico, da parte di settori sociali, più che di strati sociali, che in qualche modo non avevano più come problema prioritario la sopravvivenza, il mangiare, il dormire, la casa, il lavoro: un fenomeno post-materialista, appunto.
Fin dall’inizio ci furono sociologi che studiavano questi cambiamenti profondi fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Ricordo in particolare Ronald Inglehart, uno studioso anglosassone, che nei primi anni Ottanta scrisse un libro molto bello, La rivoluzione silenziosa (Rizzoli, 1983), che analizzava che cosa stava cambiando sotto la crosta della società post-industriale, e aveva individuato questi cambiamenti nel passaggio dai valori materiali ai valori post-materiali, dai movimenti onni-totalizzanti ed onnicomprensivi, a movimenti per singoli temi, per singoli valori, per singoli obiettivi, per singole issues: l’ambiente, il nucleare, il consumo, la qualità della vita, la pace. Certo, quello era anche un periodo di grande sviluppo dei movimenti pacifisti, e in qualche modo quella era la radice sociale e culturale della nascita dei nuovi movimenti ecologisti.
Non c’è dubbio, quindi, che l’ecologia politica, intesa nel senso complesso che ho più volte richiamato – ecologia ambientale, sociale, umana, della mente, delle istituzioni – ha a che fare con tutta la società nel suo insieme, e con tutti gli strati sociali. E quindi, se vuole avere un futuro, in Italia, in Europa, nel mondo, deve avere la capacità di dare una prospettiva, diversa dall’attuale modello di sviluppo, anche agli strati sociali popolari. La deve dare sia in termini di modello economico, sia in termini culturali, perché ho già accennato al fatto che fenomeni di populismo di destra, non solo la Lega in Italia, ma anche negli altri paesi europei, hanno purtroppo una forte incidenza negli strati sociali più poveri, che vedono l’immigrazione con paura, che sentono l’insicurezza sociale, che hanno timore del futuro, che hanno l’incertezza del posto di lavoro, che vivono fenomeni di precarietà e fenomeni di emarginazione.
L’uscita dal minoritarismo in una dimensione europea
Tuttavia il problema più grosso oggi in Italia, a mio parere, per uscire dal minoritarismo rispetto alla dimensione europea, è quello di riuscire a individuare le persone, i gruppi, i movimenti, la cultura politica, il programma di un nuovo movimento politico ecologista. Non parlerei di ideologia, perché è una parola che è stata superata dal movimento ecologista fin dalle sue origini, ma parlerei di visione politica e anche di passione politica, perché senza visione e senza passione non si riesce a mobilitare le persone, a creare consenso, a creare speranza, a creare fiducia, a creare una svolta anche mentale. Ecco, questa è nell’immediato la sfida più grossa. Ma è evidente che un nuovo soggetto politico ecologista, che ricomprenda anche i Verdi, deve però andare ampiamente oltre i Verdi storici italiani, che hanno sofferto tutte le debolezze dei Verdi nei paesi mediterranei del Sud-Europa, ma a queste hanno aggiunto anche propri errori politici clamorosi.
Che ci siano stati questi errori, i risultati degli ultimi anni sono lì a dimostrarlo. Ma quali sono stati questi errori? Intanto e sicuramente l’avere abbandonato troppo presto – in realtà non avrebbe dovuto essere abbandonata mai – proprio quella caratteristica di forte innovazione culturale, di trasversalità politica e sociale, che era nel DNA delle origini del fenomeno ecologista. Poi l’aver fatto male i conti col cambiamento del sistema politico ed elettorale. Non era certo facile affrontare la nuova situazione creatasi negli anni Novanta. I Verdi erano nati e avevano avuto le prime affermazioni nazionali, regionali e locali negli anni Ottanta, col sistema proporzionale e quasi dovunque come forza di opposizione e di alternativa. Successivamente, dal 1994 in poi hanno dovuto misurarsi col nuovo sistema elettorale che imponeva le coalizioni, e scelsero – credo naturalmente – di stare con la coalizione di centro-sinistra in alternativa a quella di centro-destra. Ma nel fare questo abbandonarono la potenzialità, più che la capacità, di riuscire a parlare anche a settori sociali che votano centro-destra, ma che sono attenti e sensibili – e ci sono – anche alla questione ecologica e alle questioni ambientali.
Gli errori dei Verdi italiani
Fin dal 1994, alla prima applicazione del nuovo sistema elettorale, i Verdi come tali non si caratterizzano più e si presentano coi “Progressisti” della “gioiosa macchina da guerra”. Già la parola era discutibile e non fu discussa: non c’è niente di più antitetico alla concezione ecologica della società, come la parola “progressista”, che è frutto al tempo stesso della mentalità industrialista e da Terza Internazionale. Successivamente si verifica invece, a mio parere, un aspetto positivo, che non è ovviamente soltanto dei Verdi, cioè la nascita dell’Ulivo di Prodi. I Verdi, e questa a mio parere è stata una scelta intelligente all’epoca, divengono fin dall’inizio soci fondatori dell’Ulivo di Prodi, con il PDS e i Popolari. Questa scelta dà ai Verdi una loro identità più aperta e riformatrice e li colloca non in una cultura di opposizione, ma in una cultura di governo: si potevano perdere o vincere le elezioni, ma la logica era quella di una cultura di governo, una cultura riformatrice che si candida a governare.
La svolta che, a mio parere, ha invece determinato l’inizio del declino, è quando negli anni Duemila, dal 2001 in poi, i Verdi si collocano (con il mio totale dissenso) sempre di più all’estrema sinistra, quella che sui giornali di allora viene chiamata la “sinistra radicale”, la “Cosa rossa”. In questo modo, i Verdi nella “Cosa rossa” si collocano in quella che personalmente definisco anche oggi una specie di “riserva indiana”, per di più in via di consumazione e di esaurimento per ovvie ragioni storiche e politico-culturali.. Ciò che inizialmente era un fenomeno che poteva avere tra il 10 e il 15% di consenso, gradualmente non poteva che calare, perché in esaurimento era il fenomeno ideologico e sociale di riferimento, cioè il comunismo e il post-comunismo. Senza alcun disprezzo né per i comunisti né per i post-comunisti, si trattava comunque di un fenomeno storicamente finito ed in via di definitiva consunzione, con cui in Italia, dopo l’89, non si erano ancora fatti i conti, soprattutto a causa del sovrastare di Tangentopoli.
Il suicidio della “sinistra radicale”
In sintesi, il fatto che i Verdi che nascono dalla fine delle ideologie totalizzanti, dal superamento delle ideologie ottocentesche, dal superamento dell’industrialismo come universo culturale, dalla necessità di una trasversalità, si andassero improvvisamente a collocare nella “riserva indiana” della “sinistra radicale”, della “Cosa rossa”, è risultata una scelta suicida, che non poteva che finire com’è finita. Per anni, nei servizi televisivi, nei resoconti giornalistici, si leggeva tutti i giorni e si sentiva dire tutte le sere: “Rifondazione comunista, Comunisti e Verdi… Verdi, Comunisti e Rifondazione comunista… si sono opposti… hanno protestato”. Sempre, per un decennio circa, quella è stata la caratura pubblica dei Verdi, cioè di essere una forza dichiaratamente ecologista, ma in realtà collocata in un ambito neanche post-comunista, ma addirittura semplicemente comunista. E’ stato un impoverimento programmatico, e soprattutto un annichilimento culturale, che oltre a tutto contrastava col concreto operare di molti Verdi nelle amministrazioni comunali, provinciali e regionali e anche nella quotidiana vita parlamentare (oltre che nel Parlamento europeo).
Questa collocazione politica suicida, durata quasi un decennio, ha poi avuto la sua sanzione definitiva, in un uno-due micidiale – elezioni politiche del 2008 ed europee del 2009 -, tale da stendere al suolo chiunque. Dapprima la scelta di presentarsi alle elezioni politiche del 2008 con un’alleanza, un cartello elettorale, denominato “Sinistra arcobaleno”, in cui si erano collocati tutti quei soggetti, compresi alcuni spezzoni fuoriusciti dai DS o non entrati nel PD. E’ certo la fase folle della scelta di Veltroni dell’”andar da soli” – mentre in realtà va con l’Italia dei valori, che era al 2% all’epoca, poi al 4% con le politiche e adesso è all’8% -, e della “vocazione maggioritaria”, cioè la fase di impazzimento generale, che regala su un piatto d’argento la vittoria a Berlusconi e al centro-destra. Ma in questo impazzimento generale, che del resto per molti aspetti perdura ancora, Berlusconi vive innanzitutto più sugli errori del centro-sinistra che non sulla forza propria.
Personalmente ritengo inconcepibile pensare che la gente possa votare in maggioranza per il centro-sinistra soltanto perché il centro-sinistra ogni giorno dice che Berlusconi deve dimettersi, e lo dice perché c’è la escort, perché c’è la Noemi, perché c’è la Ruby. Su questo terreno si può “sputtanare” Berlusconi (che comunque si è dimostrato capacissimo di farlo anche da solo…), ma non si costruisce un’alternativa di governo. Comunque, l’anno dopo della sconfitta delle elezioni politiche (e dell’uscita dal Parlamento italiano per la prima volta dal 1987: “errare humanum est”?) c’è un “perseverare diabolicum”: nel 2009, alle elezioni europee, i Verdi fanno la scelta (anche questa volta col mio totale dissenso), di entrare in “Sinistra e Libertà”: non il partito oggi di Vendola, ma il cartello elettorale che si rifiutò addirittura di mettere la parola “ecologia” nel simbolo. Adesso, che dentro non ci sono più (fortunatamente) i Verdi, la parola ecologia l’hanno messa… Ennesima catastrofe anche alle europee, comunque, determinata anche dal fatto che Veltroni (con Franceschini) e Berlusconi si misero d’accordo negli ultimi due mesi di cambiare improvvisamente la legge elettorale, per completare l’opera di “epurazione” istituzionale: mentre dal 1979 non c’era nessuna soglia, improvvisamente, con un vero e proprio colpo di mano, venne introdotta la soglia del 4%, che non aveva nessun significato in Europa, dove non c’è nessun problema di governabilità (e dove i Verdi comunque sono la quarta forza politica con 57 europarlamentari). In questo modo, oltre ai Verdi italiani, sono scomparsi dal Parlamento europeo non solo comunisti e post-comunisti, ma anche i radicali italiani e gli stessi socialisti. Tacitianamente, “hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato vocazione maggioritaria”, verrebbe da esclamare, anche perché le responsabilità di questa catastrofe annunciata sono ben condivise nel desolante panorama del centro-sinistra italiano.
La svolta di Fiuggi e la “Costituente ecologista”
Di fronte a questo scenario non esaltante, viene da chiedersi: e adesso che cosa succede? Che possibilità ci sono di costruire un ampio e credibile movimento ecologista anche in Italia? In realtà, il riferimento costante in questa riflessione critica al quadro europeo fa emergere che le potenzialità di un soggetto politico ecologista laico, aperto, plurale, capace di rapportarsi a tutta la società e di essere innovativo nei contenuti culturali, sono enormi, non solo in Europa, ma anche in molti altri paesi del mondo. I Verdi italiani si sono purtroppo dimostrati inadeguati, radicalmente inadeguati. Per questo è necessario superare i Verdi attuali in una prospettiva ecologista più ampia, dando vita a un nuovo soggetto politico ecologista, che permetta di uscire definitivamente da questi errori storici. Da questa necessità inizia un nuovo percorso, che è stato individuato nella “Costituente ecologista”. I Verdi, come sono oggi, dopo la svolta salutare, ma assai tardiva, del Congresso di Fiuggi (ottobre 2009), possono e devono essere uno strumento utile e importante al servizio di questa prospettiva strategica della Costituente ecologista. Personalmente spero che da parte dei Verdi italiani – che hanno guardato e guardano con grande interesse al percorso e all’esperienza di Daniel Cohn-Bendit con “Europe Écologie” in Francia – ci sarà l’intelligenza e la volontà di non voler avere un ruolo egemone, di non voler essere loro da soli protagonisti di questa prospettiva, e anzi di avere l’accortezza e la piena disponibilità di costruire insieme a molti altri questo progetto.
C’è una caratteristica strutturale del sistema politico italiano, e cioè che non è presente nessuna forza politica che sia davvero in grado di rendere “biologicamente degradabili” i Verdi, cioè di poter affermare: “mi sono fatto carico io della questione ecologica”. E purtroppo questo vale prima di tutto per il principale partito del centro-sinistra, cioè per il PD. Il segretario Bersani è apprezzabile per aver chiuso il capitolo dell’”autosufficienza” di Veltroni, ed è positivo che abbia vinto le primarie proprio sulla necessità di rilanciare la politica delle alleanze. Ma poi, nel merito, nei contenuti, quando Bersani parla, pur essendo uomo capace e intelligente, non c’è tanto la sottovalutazione, quanto c’è la totale assenza di qualunque tematica ecologica e di qualunque consapevolezza di che cosa rappresenti e quale centralità abbia la questione ecologica nel mondo di oggi. Neppure nel linguaggio, neanche per ragioni opportunistico-rituali, cita mai – di fianco al lavoro, alla scuola o alla crisi economico-finanziaria -, i cambiamenti climatici, le energie rinnovabili, la raccolta differenziata dei rifiuti, il cambiamento degli stili di vita, che poi sono quelle questioni che colpirebbero anche un po’ la passione e l’umanità dei cittadini. Perché ci vuole anche un po’ di motivazione forte, ci vuole l’agire con il cervello, ma ci vuole inoltre un po’ la capacità di colpire anche le viscere della gente con valori forti, perché oggi le viscere della gente sono colpite in modo regressivo solo dalle campagne xenofobe, razziste, e dalla paura.
Il populismo di sinistra e l’alternativa al berlusconismo
Rispetto a “Sinistra ecologia e libertà”, al loro recente congresso di Firenze s’è visto rappresentato un filone tradizionale della sinistra comunista e post-comunista e della sinistra sindacale (la FIOM in particolare), con un prevalere del “sinistrese” e del “sindacalese” come linguaggio politico. Lì c’è un universo culturale e ideologico che è ancora quello della vecchia “sinistra radicale”, sia pure separata oggi da Rifondazione comunista e dai Comunisti Italiani (che insieme hanno costituito ora la Federazione della sinistra). Non mi pare – anche se c’è un certo successo di consenso nei sondaggi, soprattutto legato alla figura di Vendola, che è un personaggio carismatico e che ha un suo ruolo e una sua credibilità – che da lì possa venir fuori nulla di nuovo. E la prova l’abbiamo avuta proprio al congresso di Firenze: l’intervento congressuale europeo osannato è stato quello del rappresentante della Linke, che è esattamente un partito erede sia dei comunisti della Germania-Est sia della sinistra massimalista separatasi dai socialdemocratici dell’Ovest. Quell’intervento, che ho ascoltato con molta attenzione, è stato molto applaudito, ma mi è parso un intervento politicamente e culturalmente vecchio, rappresentando in Germania, come del resto in Italia, un’area politica e sociale che c’è, ma che è storicamente residuale.
Per Grillo il ragionamento è diverso: Grillo ha in qualche modo “succhiato” tutti i contenuti ecologisti dei Verdi, ha preso tutto quello che poteva prendere e lo ha trasformato in una sorta di randello da dare in testa al sistema politico esistente. Ma non ha voluto o saputo trasformarlo in un programma, in una proposta, in una cultura alternativa ecologista di governo, da proporre per salvare l’Italia. In Italia poi c’è un berlusconismo dilagante non solo a destra. Anche a sinistra c’è chi si costruisce un ruolo mediatico e usa il populismo: lo fa Vendola, in modo più accorto (anche perché ha una responsabilità di governo regionale), lo fa Di Pietro, lo fa Grillo. In Grillo c’è una forte presenza di contenuti ecologici, ma una totale assenza di proposta programmatica, e soprattutto di cultura di governo. Ma non la vuole: dichiara esplicitamente di non volerla. La presenza della lista di Grillo alle elezioni regionali piemontesi del 2010 è stata determinante per far perdere la Bresso. Possiamo riconoscere sicuramente che gravi errori ne ha fatti anche il centro-sinistra, soprattutto sulla questione della TAV e Grillo ha avuto il successo che ha avuto in Piemonte soprattutto in riferimento critico alla TAV. Però è stato assolutamente indifferente al fatto che quel modo di far politica e quell’essere programmaticamente sganciato da qualunque coalizione è stato determinante per far vincere la Lega e il centro-destra. E la sua risposta, che per un comico è anche simpatica, ma per un politico è irresponsabile – “non è vero che io ho fatto perdere la Bresso, è la Bresso che ha fatto perdere me” -, fa capire la totale assenza dell’etica della responsabilità, che secondo me, accanto al principio di precauzione e al principio speranza, è la vera alternativa al fondamentalismo e al populismo anche di sinistra.
Se, per quanto riguarda il rilancio di un ecologismo politico di dimensione europea anche in Italia, siamo sicuramente soltanto all’inizio (pur dopo un quarto di secolo dalla nascita del movimento verde), in sintesi basterebbe invece dire che siamo di fronte all’inizio della fine del berlusconismo: ma solo all’inizio della fine, non ancora alla fine. Anche nel momento in cui questa fine ci sarà, e prima o poi ci sarà, noi oggi però non sappiamo se ci sarà un centro-sinistra all’altezza di una alternativa di governo, credibile da parte della maggioranza dei cittadini. Col paradosso che c’è il rischio che cada l’attuale governo Berlusconi, che si arrivi prima o poi alle elezioni anticipate, ma che possa vincere questa volta magari un berlusconismo senza Berlusconi! Cosa che non mi auguro, ovviamente, ma perché questo non avvenga c’è ancora molta strada da fare davanti alle forze, grandi e piccole, del centro-sinistra, per ricostruire una proposta programmatica coerente e innovatrice, una credibilità politica, un’alleanza riformatrice plurale, una passione civile che non sia solo la sommatoria degli anti-berlusconiani. In questo scenario di “ricostruzione” – politica, culturale, economica ed anche morale – potrebbe e dovrebbe assumere un suo ruolo significativo anche l’ecologismo politico, con la capacità di indurre finalmente il sistema politico italiano ad essere all’altezza dell’agenda ecologica europea e mondiale
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