Novità contrastanti dal fronte del biocarburante. Il campo più interessante è quello dei biofuel di seconda generazione che invece di essere prodotti direttamente da materie prime di origine agricola, originano dagli scarti della cellulosa. L’idea è quella di sfruttare uno degli zuccheri, lo xilosio, presenti negli scarti. Attraverso l’introduzione di un enzima si riesce a produrre etanolo portando il rendimento dal 22 al 36%. I vantaggi sono nell’ordine utilizzare biomasse “povere” ottenute da scarti al posto di materie prime agricole, da destinare all’alimentazione, e rendere possibile un processo di bioraffineria con la produzione di altri derivati. Tenendo conto che in Italia vengono prodotti 100 milioni di tonnellate di rifiuti, di cui 40milioni urbani, e stimando che il 35% sono cellulosici (carta, cartone, legnami) non riciclabili si possono trattare circa 14 milioni di tonnellate. Il ricavo potrebbe aggirarsi in circa 4.8 miliardi di litri di etanolo, cioè il 30% del fabbisogno nazionale dato che in Italia si consumano annualmente circa 16 miliardi di litri di benzina. L’investimento non è elevato: la realizzazione di un impianto da 50 mila tonnellate di capacità impegnerebbe circa 20 milioni di Euro con un ritorno dell’investimento stesso in circa tre anni. Di opposto tenore mi sembra l’altra notizia che annuncia per l’anno prossimo la vendita negli Usa di una semente geneticamente modificata (ogm) che contiene al suo interno un enzima, l’amilasi, che potrebbe produrre etanolo senza bisogno di aggiunte successive. Secondo i produttori con questo seme si eliminerebbero gli scarti che attualmente rappresentano circa il 35% delle attuali coltivazioni. Il problema è che la presenza all’interno della pianta di amilasi, che ne accelera la fermentazione e la cui dannosità per l’organismo umano è altamente probabile, potrebbe contaminare anche le altre coltivazioni data l’ampia dimostrazione dell’incapacità di controllare l’immissione di sementi nel territorio.