Dorino Piras

La Salute, l'Ambiente, il Lavoro

Sul Controtransfert. Paula Heimann

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Paula Heimann

Sono stata stimolata a scrivere questa breve nota sul controtransfert da alcune osservazioni che ho fatto in seminari e analisi di controllo. Sono rimasta colpita dall’idea, diffusa tra i candidati, che il controtransfert non sia altro che una fonte di guai. Molti candidati hanno paura e si sentono colpevoli quando si accorgono di provare sentimenti verso i loro pazienti, e di conseguenza cercano di evitare qualsiasi risposta emotiva e di diventare completamente «distaccati». Quando ho cercato di comprendere le origini di questo ideale di un analista «distaccato», mi sono resa conto che la nostra letteratura non contiene descrizioni del lavoro analitico che possano far nascere l’idea che un buon analista provi per il proprio paziente solo una costante e moderata benevolenza; e che invece ogni increspatura di questa superficie liscia costituisca una perturbazione che deve essere superata.  Forse ciò può derivare da una cattiva interpretazione di alcune affermazioni di Freud, come il suo paragone con lo stato mentale del chirurgo durante un operazione, o l’altra analogia dello specchio; queste frasi infatti sono state citate spesso nelle discussioni sulla natura del controtransfert. D’altra parte esiste una diversa linea di pensiero, come quella di Ferenczi, che non solo riconosce che l’analista prova per il paziente una grande varietà di sentimenti, ma consiglia anche in certi casi di esprimerli apertamente. (altro…)

OMS Europa: Salute mentale, diritti dell’uomo e standard di cura

oms mental Il progetto dell’OMS sugli adulti che presentano deficienze psicosociali e intellettive in Europa individua un gruppo molto marginalizzato e vulnerabile a livello di diritti, qualità della vita e inserimento nella società seriamente compromesso da pratiche istituzionali obsolete e spesso inumane. Il suo obbiettivo è la promozione e la facilitazione della deistituzionalizzazione.

 Gli obiettivi specifici del progetto riguardano la possibilità di colmare la mancanza di conoscenze sulle caratteristiche di questo problema e recensire le lacune attuali in materia di normative sulle cure sotto l’angolo della Convenzione delle Nazioni Unite relative ai diritti delle persone con deficit. Questa pubblicazione esamina e valuta la qualità delle cure e la protezione dei diritti dell’uomo in più di 20 Paesi europei con l’aiuto dei Quality Rights dell’OMS., definendo le misure da intraprendere per giungere alla deistituzionalizzazione e assicurare il rispetto delle persone con deficit psicosociali e intellettuali

 

Politica e Inconscio secondo Winnicott

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 (…) Gli scienziati desiderano introdurre nella politica qualcosa della loro disciplina. Tuttavia, per quanto riguarda le questioni umane, il pensiero razionale non è altro che una trappola e un’illusione, a meno che non tenga conto dell’inconscio. Mi riferisco a entrambi i significati della parola, cioè inconscio nel senso di «profondo» e non rapidamente disponibile, e nel senso di rimosso», vale a dire mantenuto tenacemente inaccessibile a causa del dolore che deriva dalla sua accettazione come parte del Sé.

I sentimenti inconsci dominano le persone nei momenti critici, e chi può dire se ciò è un bene o un male? E’ comunque un fatto; un fatto che deve essere preso in considerazione costantemente dai politici, se vogliono evitare pericolose conseguenze. Infatti, a uomini e donne possono essere affidati con sicurezza dei compiti nel campo della pianificazione soltanto se sono qualificati nella comprensione dei sentimenti inconsci.

I politici sono abituati a scavare intuitivamente nel profondo, così come fanno gli artisti di tutti i tipi scoprendo e mettendo in luce i meravigliosi e terribili fenomeni che appartengono alla natura umana. Ma il metodo intuitivo ha i suoi inconvenienti; uno dei maggiori consiste nel fatto che le persone intuitive spesso sono intransigenti quando parlano di cose di cui vengono a conoscenza senza difficoltà.

Preferirei ascoltare sempre dei pensatori che riflettono su ciò a cui stanno pensando piuttosto che delle persone intuitive che parlano di ciò che sanno. Ma, per quanto riguarda la pianificazione delle nostre vite, che il cielo ci aiuti se i pensatori prendessero il sopravvento! Innanzitutto, essi solo raramente credono all’importanza dell’inconscio; secondo, anche se lo fanno, la nostra comprensione della natura umana non è ancora sufficientemente completa da permettere che la sola riflessione sostituisca il sentimento. Il pericolo è in parte dovuto al fatto che i pensatori elaborano dei sistemi che sembrano meravigliosi. Ogni incrinatura in questi sistemi viene sottoposta a un ragionamento ancora più brillante e, alla fine, questo capolavoro di costruzione razionale viene demolito da un piccolo dettaglio come l’Avidità, che non è stata tenuta in conto; il risultato è un’altra vittoria dell’irragionevolezza, e la sua conseguenza: un incremento della pubblica sfiducia nella logica.

A mio avviso, la questione dell’economia, così come si è sviluppata e come ci è stata presentata in Inghilterra negli ultimi vent’anni, è l’esempio di uno dei temi che possono far indulgere allo sconforto. Per quanto riguarda la chiarezza di pensiero in relazione a una disciplina infinitamente complessa, gli economisti sono ineguagliabili. E la chiarezza di pensiero è necessaria. Tuttavia, per qualcuno il cui lavoro mantiene costantemente il contatto con l’inconscio, l’economia è spesso sembrata la scienza dell’Avidità, in cui viene eliminata ogni menzione all’Avidità. Scrivo Avidità con la lettera maiuscola, perché mi riferisco a qualcosa di più dell’avidità per cui i bambini vengono ammoniti; mi riferisco all’Avidità come a un impulso amoroso primitivo, ciò di cui ci spaventa riappropriarci, ma che è alla base della nostra natura e di cui non possiamo fare a meno se non cessiamo di interessarci alla nostra salute fisica e mentale. Vorrei suggerire che una sana economia dovrebbe prendere in considerazione l’esistenza e il valore (come pure il pericolo) dell’Avidità personale e collettiva e dovrebbe tentare di imbrigliarla. L’economia malsana, al contrario, attribuisce l’Avidità soltanto ad alcuni individui o gruppi di individui, che definisce come patologici: pretende che essi siano eliminati o richiusi, e si fonda su questo assunto. Essendo questo un assunto falso, gran parte dell’economia intelligente è soltanto intelligente, vale a dire divertente da leggere ma pericolosa come fondamento per la pianificazione.

L’inconscio può essere un elemento di disturbo per i pensatori, ma anche l’amore lo è per i vescovi.

Donald Winnicott

(IL PENSIERO E L’INCONSCIO;  apparso in “Liberal Magazine”, marzo 1945.)

 

Debellare il senso di colpa. Lucio Della Seta

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Un bel libro questo di Lucio Della Seta: semplice ma non semplicistico, scorrevole e comprensibile da tutti perché a tutti è indirizzato. Ognuno di noi ha provato l’esperienza dell’ansia e del senso di colpa senza trovare, spesso, motivazioni che potessero giustificare la sproporzione di queste sensazioni con le cause che ci siamo costruiti nella nostra mente. Della Seta, analista della scuola di Jung ma di ampio respiro psicoterapeutico, ripercorre i passaggi della nostra storia personale mostrandoci molti meccanismi biologici e psichici inconsci che costruiscono questa realtà universale della natura umana, con molti messaggi di speranza, tra cui scelgo quello della possibilità di cambiare gli occhiali attraverso cui guardiamo noi stessi e gli altri, a cui occhi pensiamo spesso di non valere o che siano ostili “a prescindere”, mentre più probabilmente si occupano di noi molto meno di quanto noi ci occupiamo di noi stessi.

La cura torni ad essere madre. Massimo Recalcati

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Nel nostro tempo il carisma etico del padre ha lasciato il posto all’apologia scientista del numero. Anche la pratica delle cure risente di questo mutamento di paradigma. Diagrammi, costanti biologiche, protocolli, percentuali, comparazioni quantitative — necessarie ad ogni ricerca scientifica — rischiano di alimentare un feticismo della cifra che finisce per farci dimenticare che dietro ad un numero c’è sempre un corpo, un volto, un nome proprio, una vita che soffre. Lo stesso criterio di salute tende oggi a trasfigurarsi in un imperativo normativo se non in un vero e proprio comando igienista. In realtà il culto del benessere a cui oggi nessuno dovrebbe sfuggire impone una versione univoca e solo numerologica della felicità che corrisponde ad un tipo antropologico astratto. Questa ambizione emana un odore fatalmente fascisteggiante: attraverso l’imposizione di un ideale universale di salute e di benessere l’igienismo ipermoderno vorrebbe cancellare il carattere disarmonico, storto, sempre irregolare della vita umana. La malattia e la morte — come lo straniero, il migrante, la povertà, la follia — incarnano una differenza scabrosa che deve essere appianata. Nell’ideale positivo e universale della salute alberga sempre il rischio di una uniformazione della vita, di una sua medicalizzazione salutista. Non esiste infatti un criterio universale né della salute, né, tantomeno, della felicità. È questa una definizione precisa e inquietante che Lacan dava del totalitarismo: fare della felicità una misura universale. Con l’aggiunta essenziale che ogni volta che l’altro si prodiga per fare il nostro bene c’è sempre in agguato il rischio di perdere la nostra libertà. In questo contesto assume sempre più importanza il tema della cosiddetta umanizzazione delle cure. Non si tratta di rinunciare alla ricerca scientifica o agli strumenti specialistici di indagine diagnostica e di intervento terapeutico nel nome di un umanismo astratto, quanto, piuttosto, di ribadire, proprio nel tempo del dominio incontrastato della scienza e della tecnica, la centralità della dimensione della cura come attenzione per la singolarità irriducibile del paziente. Più precisamente, si tratta di calibrare ogni volta il codice paterno proprio del piano normativo delle procedure diagnostiche e terapeutiche — che, come tale, esige sempre nei pazienti una quota di oggettivazione — con il principio materno proprio della necessaria particolarizzazione delle cure. Questo principio consiste nel contrastare il carattere anonimo, standard, impersonale delle pratiche di cura. Il nostro tempo oscilla tra l’incuria assoluta (si pensi allo sfruttamento illimitato delle risorse del pianeta o al mito individualistico del successo a scapito di una concezione solidaristica della vita) e la riduzione delle cure a procedure spersonalizzanti. Diversamente il principio materno umanizza le cure nel senso che custodisce il senso più profondo della cura come dedizione per il particolare. Esso ostacola la riduzione del volto al numero e afferma il principio etico che la cura, ogni pratica di cura, è sempre cura dell’”uno per uno”. È qui che ritroviamo l’essenziale della donazione materna: rendere ogni figlio unico, non secondo la legge del numero, ma secondo quella etica della insostituibilità. Il principio materno ci ricorda altresì che in ogni pratica di cura la responsabilità coincide con la capacità di rispondere al grido di chi soffre, di chi si trova in una condizione di inermità e abbandono, sia esso un paziente, un quartiere, una istituzione o, come hanno recentemente segnalato con forza le nuove generazioni, il nostro stesso pianeta. Ovunque vi sia responsabilità come risposta al grido di chi soffre è in atto una esperienza di umanizzazione della cura. Rispondere al grido è saper restare vicini a chi è ferito e vulnerabile, a chi è gettato nello sconforto. Una cura che sa essere umana è una cura che non lascia solo chi soffre senza però nutrirlo con l’onnipotenza illusoria di una terapia priva di limiti che lo sviluppo prodigioso della tecnologia rischia di alimentare. Non a caso la dimensione umanamente più profonda della cura si rivela proprio laddove si incontrano i limiti della terapia come insuperabili. Si tratta in questi casi di prendersi cura della inermità di chi soffre senza promettere guarigioni impossibili e senza accanirsi nell’evitare ad ogni costo della morte. L’umanizzazione della cura definisce innanzitutto la salvaguardia della dignità del paziente. In questo senso la tutela del fine vita può essere un atto di profonda cura proprio quando contraddice l’accanimento della volontà terapeutica. Allora la morte può essere un dono che assicura alla vita il suo diritto a morire laddove la terapia ha dovuto riconoscere il proprio scacco. In questi casi estremi, l’umanizzazione della cura significa non sostenere la vita come principio astratto e impersonale, ma ricordare che ogni vita è una, singolare e insostituibile; che ogni vita ha diritto a vivere e a morire a suo modo.

Massimo Recalcati. La Repubblica 2.9.2019

Masud Khan: sua maestà.

sua-maesta ”A conti fatti, nessuno di noi manderebbe un paziente in analisi da Khan, ma quanti di noi, invece, sono rimasti clinicamente toccati dalle sue grandi intuizioni, in particolare sul trauma cumulativo, sul carattere schizoide e sulle perversioni? Con equilibrio e sensibilità, Gazzillo e Silvestri avvicinano il lettore a un’opera importante, illuminando i particolari più inquietanti della biografia dell’autore, ma senza rimanere vittime di derive puritane o di uno zelo politically correct. Il progetto di tenere insieme la vita e le opere al tempo stesso tenendole separate, sembra riuscito” (dalla prefazione al volume).

La teoria di Khan, come la sua vita, sembra dedicata a ricercare proprio quei luoghi e quei modi dell’esperienza che rendano possibile la scoperta del sé e la’ttualizzazione delle proprie “nozioni di sé”: spazi potenziali al confine tra il sé e il non sé, luoghi in cui questa distanza temporanemanete di colma. La presenza di un altro, testimone incarnato e silenzioso, assertivo e permissivo, lo spazio onirico e il restare oziosi rappresentano condizioni che dispongono al contatto creativo con la voce più intima e nascosta dell’uomo” (Sua maestà Masud Khan, p.197)

C’é dell’altro. Julia Kristeva

kristeva” Dirò che l’ascolto freudiano dell’inconscio ha permesso di pensare la trascendenza (…) come immanente all’essere parlante. Come un’irriducibile alterità che ci abita (…). La psicoanalisi ha scoperto soprattutto che c’é dell’altro: l’altro che mi fa parlare, che investo e da cui mi separo, per amore-e-odio, un’estraneità in me che mi altera, che mi “trascende” e che sarà chiamata Inconscio; e ciò che mi invita a considerare ogni persona nella sua irriducibile alterità: “ogni io é un altro”.”

“Benchè nessuna delle mie parole sia degna di fede, parlo perché qualcuno mi ha parlato e ascoltato (…) Poiché credo, parlo; non parlerei se non credessi; credere a quel che dico, e persistere nel dire, deriva dalla capacità di credere nell’Altro, e non certo dall’esperienza esistenziale, necessariamente deludente.”

 

 

La Germania di Weimar. Eric D. Weitz

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 ”Weimar é ancor sempre presente, ma il suo profondo significato non si può coglierlo nelle sparate senza senso in cui ci si imbatte facilmente sui vari siti web. Weimar é, invece, un chiaro esempio di fragilità della democrazia e un severo avvertimento, tutt’ora valido a distanza di cent’anni dalla rivoluzione e dall’istituzione della repubblica, di ciò che può accadere quando le persone e le istituzioni di una democrazia sono oggetto di attacchi incessanti e spesso brutali; allorchè la politica diventa una guerra per l’assoluto dominio di una parte in causa; quando certi gruppi sono platealmente condannati ed emarginati; quando i conservatori tradizionali vengono a patti con la destra estremista e razzista, conferendole una legittimazione che non sarebbe certo in grado di conquistarsi autonomamente. Le gradi realizzazioni di Weimar, la sua democrazia, la sua vivacità culturale, l’apertura alle diverse sessualità, le riforme sociali, erano esattamente l’oggetto degli odi della destra. Queste realizzazioni vanno riconosciute e celebrate a cento anni di distanza. In caso contrario, si consentirebbe ai nemici della democrazia e del progresso di modellare il passato a loro uso e consumo; gli si riconoscerebbe una vittoria  postuma”. (Eric D. Weitz, dalla prefazione al volume).

La questione filosofica dell’inconscio

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E’ esistito un tempo in cui la parola “inconscio” non veniva immediatamente associata alla figura di Sigmund Freud. Lo stesso padre della psicoanalisi riconosce, in diversi passi della propria opera, il suo debito verso altre figure nel rinvenimento di questo mondo non immeditamente (e direttamente) conoscibile. In tempi di prevalenza neuroscientifica che sembra limitare nei fatti il concetto di inconscio ai circuiti del nostro apparato neurale, riscoprire le radici filosofiche da cui prende l’abbrivio il pensiero di Freud credo sia fondamentale sia per il pensiero psicoanalitico come per quello delle neuroscienze. Ripercorrendo la genesi della “scoperta” freudiana non possiamo, ad esempio, non considerare i rapporti del Maestro con Brentano del quale seguì i corsi universitari e che la critica ha trattato in due modalità: una passione passeggera non particolarmente rilevante del giovane Sigmund ovvero il necessario rinnegamento dell’opera del filosofo come condizione possibile per pensare l’inconscio. L’opera di Michele Di Martino prende le mosse proprio dalle riflessioni del dibattito sull’inconscio che fu uno dei temi maggiormente presente di buona parte delle filosofie del XIX secolo per arrivare al problema dell’inconscio nella fenomenologia di Husserl. E tenere a mente anche il contributo filosofico delle indagini sull’inconscio in tempi di riduzionismo scientifico, credo sia uno strumento di non poco conto nella nostra cassetta degli attrezzi analitica.

Il tempo degli stregoni. Wolfram Eilenberger

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Il racconto appassionante dell’intreccio delle vite di quattro giganti della filosofia negli anni tra il 1919 e il 1929 – Wittgenstein, Heidegger, Benjamin, Cassirer – protagonisti di una rivoluzione che ha cambiato il nostro modo di pensare.

“La sfida specifica che i giovani filosofi si trovano a fronteggiare nell’anno 1919 si può riassumere anche così: si tratta di fondare, per sé e per la propria generazione, un progetto di vita che si muova al di fuori della “gabbia” di “destino e carattere”. Sul piano concretamente biografico, ciò significa tentare di evadere dagli schemi fino alloradominanti (famiglia, religione, nazione, capitalismo). E in secondo luogo trovare un modello di esistenza che permetta di metabolizzare l’intensità dell’esperienza bellica, trasferendola nell’ambito del pensiero e dell’esisteza quoridiana. Benjamin persegue il rinnovamento con i mezzi romantici di una critica totale e dinamizzante. Wittgenstein mira, per così dire, a portare nella vita quotidiana quella perfetta pacificazione mistica e quella conciliazione col mondo di cui ha fatto esperienza nei momenti di angoscia estrema di fronte alla morte. Il compito che Heidegger intende affrontare  nella situazione in cui si trova nel 1919 si potrebbe descrivere così: (…) cerca un modus vivendi che gli permetta di conciliare  l’intensità dell’esperienza bellica – che presenta per lui sostanziali analogie con l’intensità del pensare – con l’apirazione irrimunciabile alla quotidianità. (…) Per mantenere questa fedeltà – l’unica che gli interessi nella vita – ha bisogno soprattutto di una cosa: di essere libero. Nel pensiero. Nell’agire. Nell’amore. A partire dalla primavera del 1919 Heidegger incomincia a spezzare definitivamente le vecchie catene: del cattolicesimo come sistema, della casa paterna, del matromonio e della fenomenologia di Husserl. (…) il pensiero diCassirer, invece – seguendo in questo le sue due eterne stelle polari,Kant e Goethe -, preferisce evitare l’ipotesi di un “nocciolo” sostanziale in cui consisterebbe la vera identità di un individuo. (…). Questo ideale si riassume per Cassirer in una semplice formula: mostrarsi il più possibile autonomi.  Ossia: coltivare per sé e per gli altri forme ed attitudini che permettano di plasmare attivamente la propria vita, anziché subirla passivamente come qualcosa di fatale.