Esiste una storia a mio avviso esemplare per capire come funzionano i veri innovatori ed è quella di William Beveridge il quale venne chiamato da Winston Churchill a elaborare una riforma delle assicurazioni sociali e finì per costruire un progetto che ha fondato il moderno stato sociale, la sanità garantita come bene pubblico e ha innovato i metodi dell’intervento statale nell’economia e nella società. Beveridge non era certo classificabile come un progressista, quanto come un liberale inglese vecchio stampo, anche se certamente una svolta profonda nella sua vita fu l’amicizia che strinse con i coniugi Webb – fondatori della London School of Economics ma soprattutto animatori della società fabiana. La questione per noi ora interessante non è “cosa” scrisse e fece Beveridge, ma in realtà “quando” lo fece, fatto che sembra dimenticato. Il lavoro della Commissione Beveridge si sviluppò tra il luglio del 1941 ed il dicembre 1942, datain cui fu pubblicato il celebre Rapporto. Nel mezzo di uno sforzo bellico senza precedenti, in una Gran Bretagna certamente in difficoltà e in cui il sistema delle assicurazioni pubbliche, l’organizzazione sanitaria e la riforma dei servizi sociali non erano esattamente al centro delle preoccupazioni del governo. Oggi, in tempi certamente difficili, il mantra che sentiamo sempre più spesso è “non si può fare” oppure “non esistono le condizioni per farlo”. La domanda è se nel 1942 di Beveridge e Churchill esistessero le condizioni economiche, politiche, sociali, internazionali per fare tutto ciò che fecero: l’odierno stato sociale. La politica che costruisce il progresso non riconosce periodi in cui non esistano le condizioni per essere promossa. Non avventurarsi verso il progresso, perché tutto intorno sembra che non ne esistano le possibilità, è semplicemente una ragnatela mentale da conservatore.
Dorino Piras
La Salute, l'Ambiente, il Lavoro
È sotto gli occhi di tutti la difficoltà che si vive a sinistra. Ma le uniche onde, a dire il vero un po’ anomale, che si registrano sono il tentativo dei partiti di rispondere alla desertificazione istituzionale rivedendo i meccanismi dello strumento-partito. Non è sufficiente. Almeno per la sinistra e per la sua storia. Perché storicamente un modo genuino di rispondere della sinistra è quello di riorganizzarsi partendo dalla propria gente. Non intendo addentrarmi nella discussione delle forme-partito (che non sono da abbandonare come categoria). Non tutti siamo chiamati a farli funzionare, ma tutti siamo chiamati a costituirne le idee, le pratiche. Da questo compito nessuno può dirsi esentato o non in grado di contribuire.
Che fare?
Credo sia necessario creare in ogni territorio una costituente delle idee, che per ogni settore – ambiente, sanità, economia e via discorrendo – riveda i dati a disposizione e avvii una discussione veramente libera ed aperta a tutti coloro che pensano che i valori della sinistra (libertà, solidarietà, uguaglianza…) possano ancora guidare lo sviluppo della nostra società. Una discussione aperta per toglierci le incrostazioni che in questi anni hanno reso opaco il nostro messaggio.
Una discussione vera, senza slogan, dove le affermazioni devono essere sostenute dai dati e le azioni da proporre siano veramente fattibili e non viaggino nei cieli più alti. Solo questo potrà riempire i contenitori di cui i tecnici di partito stanno misurando le spoglie, le rovine.
Perché ad esempio la questione ambientale non è solo fatta di rifiuti e di inceneritori, ma anche di meccanismi di carbon tax, di applicazione di leggi europee, di monitoraggi, di economia ambientale.
La proposta sarà quindi quella di una discussione da riportare tra la gente normale, senza retropensieri di appartenenza a questo o a quel gruppo.
Perché non c’è una semplice voglia di rivalsa, ma il bisogno di parlare di problemi semplici e complessi senza censure, senza pensare di essere o meno in linea con qualche residuale totem del passato.
Questo è l’impegno che da oggi mi sono prefisso, senza rete e reticenze, dicendo anche cose forse scomode e fuori dal nostro “coretto” a cui ci siamo costretti.
Perché, come diceva l’amato Gramsci, il nostro compito è provare e riprovare.
Leggendo però senza paraocchi la realtà vera, anche quando non ci piace, senza averne paura.
Un appello, dunque, a tutti coloro che hanno ancora voglia di misurare se stessi con i valori della sinistra. L’indirizzo lo conoscete.
Quando votiamo, cosa votiamo? Sicuramente – anche se oggi meno rispetto al passato – per grandi idee che ci fanno preferire uno schieramento in alternativa ad altri. Un fatto innegabile è che votiamo per decidere la quantità di spesa pubblica che vogliamo. Questo, in sintesi, perché i mercati privati non possono funzionare sempre e non sono così efficienti come sembra.
Non tutti però sono d’accordo su questa tesi. A sinistra si ritiene che il meccanismo del mercato non possa essere lasciato a se stesso, ma debba cedere il passo ad un processo di decisioni economiche di carattere politico. A destra si suggerisce invece di “spogliare” il maggior numero di beni pubblici dalle loro caratteristiche “pubbliche”, in modo tale da trasformarli in beni “privati” da far gestire e regolare al mercato, stabilendo così il livello desiderabile di produzione di questi beni.
È nota la mia personale propensione per la prima ipotesi. Perché? Gli esempi possono essere molti. Un classico argomento è che il sistema della difesa nazionale non può essere costruito in modo da proteggere solo i cittadini che possono contribuire e non estendersi a tutti gli altri. O meglio ancora difendere in maniera diversa i cittadini a seconda di quanto hanno pagato. Ma il sistema può estendersi ad altri beni.
La Polizia di Stato pubblica potrebbe essere sostituita da un corpo privato che proteggerebbe soltanto chi porta un distintivo che attesti il suo pagamento al fondo destinato alla polizia. Oppure far risolvere le controversie giudiziarie solo a chi può permettersi di pagare giudici e giurie. Non si pensi che tutto ciò sia una semplice banalizzazione. Basterebbe scorrere i giornali di questi giorni sulle proposte del centrodestra di privatizzare la sanità pubblica ed applicare lo schema sopra richiamato, per renderci conto che questa possibilità non è così lontana ed inattuale.
Il nodo vero è che i beni pubblici non possono essere pensati come semplici merci, ma come elementi integranti il nostro sistema di diritti. Questo è il motivo per cui la sinistra parla di “allargamento” o crescita dei diritti.
Non volendo lasciare alla semplice capacità del mercato questa regolazione si ricorre, quindi, ad un altro meccanismo di scelta : il voto.
Purtroppo il voto possiede alcuni limiti che ben sappiamo. Possiamo infatti dire si o no a partiti e coalizioni senza poter suddividere su diversi argomenti le nostre scelte, come invece possiamo fare quando spendiamo i nostri soldi. In questo modo possiamo ritrovarci ad avere una spesa pubblica gonfiata in un settore ed insufficiente in un’altra.
Nella Sinistra che penso io comunque, restano fondamentali alcuni idee che non possono essere soddisfatte dalla destra: non possiamo pensare che la difesa nazionale, la scuola, la giustizia possano essere trasformate nella roccaforte dei privilegi dei ricchi, così come non siamo disponibili a dire alle persone che non potranno essere curate al meglio perché non hanno i soldi per una sanità complementare. E se un primo discrimine è pensare che il mercato non può risolvere da solo i problemi della gente, – quando poi forse li complica – deve essere anche chiaro che la distribuzione delle risorse deve essere ripensato. I soldi pubblici non devono essere spesi per le sagre della trota salterina, ma ad esempio per far crescere la ricerca nei nostri territori e per un sistema di sicurezza sociale più robusto. Non è certamente nuovo il pensiero che le persone sono disposte a rischiare di più e meglio in innovazione ed intraprendere nuove attività, se possono contare su un sistema di sicurezza sociale più forte. Proprio in questi giorni, ce lo ricordano diversi economisti che mettono a confronto la crisi del ’29 con quella attuale. L’uscita, allora, si chiamò New Deal e non, semplicemente, libero mercato.
Diversi rapporti ci forniscono dati contraddittori sui consumi sanitari. Facendo le pulci ad alcuni di essi, troviamo che la spesa di consumo di sanità privata è in realtà strettamente legata all’andamento del reddito generale. Da ciò discende un rischio che viene sempre più sottolineato dagli economisti sanitari: quello dell’”under treatment” o più comunemente del mancato o insufficiente trattamento di determinati problemi sanitari della popolazione. Soprattutto sembra verificarsi un mancato trattamento di problemi che storicamente non trovano risposte sufficienti nella struttura pubblica, come ad esempio le cure odontoiatriche, la riabilitazione fisica, la non autosufficienza. Per essere più chiari la mancata cura dei denti nel pubblico non sta aumentando le cure a livello privato, assistendosi quindi all’under treatment, sotto-trattamento o mancato trattamento delle malattie odontoiatriche con peggioramenti nella salute delle persone (si pensi a cosa porta la mancata capacità negli anziani di assumere determinati alimenti). Proprio qui si sta nascondendo un giochetto che ha preso le mosse dall’organizzazione di destra della sanità lombarda: se le persone che non possono permettersi cure private in realtà non si curano, facciamo in modo che i soldi vengano passati dalla sanità pubblica (pagata con le nostre tasse) a quella privata. Il tutto con un piano a medio periodo: svuotiamo gli ospedali, la medicina del territorio, la non autosufficienza, la prevenzione, insomma tutto ciò che è sottoposto a regole controllate dalle amministrazioni pubbliche, e passiamole al privato. Perché questo, da solo, non riuscirà comunque mai a sostenersi autonomamente, avendo necessità di “mettere le mani nelle tasche dei cittadini” che pagano puntualmente le tasse.
Pensare ad una diversa organizzazione sanitaria significa quindi porre anche la dovuta attenzione a questi fenomeni, stando attenti a considerare la crescente fascia di famiglie che elimina o allunga i tempi di risposte sanitarie con un successivo aggravio delle condizioni di salute ed un maggior costo sociale successivo. Perché questa sanità privata costa. Costa moto di più di quella pubblica e non solo dal punto di vista economico…
Noi non abbiamo paura. A differenza di altri, il nostro impegno, la nostra passione non nascono contro qualcuno o qualcosa, ma sapendo che esistono le intelligenze e gli strumenti per riformare ciò che non funziona e progredire.
Per questo accettiamo la sfida del governo della nostra Regione e chiediamo il sostegno di tutti coloro che pensano che la divisione e la paura non siano programmi politici.
Non abbiamo paura di essere radicali perché sappiamo che radicalità significa discutere e confrontarsi per convincere, non imporre le proprie idee dall’alto; perché non si può fare il bene delle persone “malgrado” ciò che le persone stesse pensano. Il nostro radicalismo è la fermezza delle nostre convinzioni con la certezza che queste non valgono nulla se non ottengono la partecipazione dei cittadini.
Non abbiamo paura dell’innovazione nelle sue diverse forme, ma anzi la ricerchiamo.
Non abbiamo paura di confrontarci con il mercato quando questo è sano e correttamente vigilato. Non abbiamo paura di riconoscere le disfunzioni della cattiva amministrazione e il ruolo positivo delle imprese in diversi settori, ma sappiamo che esistono eccellenze della gestione pubblica che forniscono servizi di alta qualità ed al minor prezzo possibile che vanno salvaguardati.
Non abbiamo paura della crescita e dello sviluppo nel campo della salute, perché il nostro obbiettivo è il benessere delle persone. Nuove tecniche, nuovi farmaci, nuovi sviluppi dell’organizzazione sanitaria non possono che avere un fine: la crescita della nostra salute, la risposta ai nostri bisogni di benessere e di accesso alle cure. Un ospedale non serve a coloro che vendono farmaci o attrezzature, ma ai cittadini che ne usufruiscono.
Non abbiamo paura dell’innovazione tecnologica, perché non crediamo ai miti di un passato in cui si stava meglio.
Non abbiamo paura nella possibilità di convivenza delle diverse culture, perché siamo ben coscienti della maturità e dello sviluppo del nostro cammino nel secoli e non abbiamo paura del confronto. Uomini che possiedono valori e principi forti e consolidati, non avranno mai paura del confronto e non avranno paura di arrivare ad un accordo perché sanno in che cosa credono.
Noi crediamo negli uomini che tutti i giorni prendono decisioni e non hanno paura di fare il proprio lavoro, che hanno il coraggio di lavorare con una pressa o un tornio, di impegnarsi in un intervento chirurgico, di cambiare le regole del proprio lavoro rischiando anche il proprio benessere economico, di progettare un ponte e di costruirlo, di scegliere di lavorare in condizioni difficili ed incerte, di essere là dove altri non vogliono essere.
Scegliendo il coraggio dell’innovazione e del progresso al posto di governare sulle paure.
Sicuramente la crisi economica ha colpito la maggioranza delle famiglie con una riorganizzazione – nei fatti una riduzione – dei propri consumi e investimenti. Esiste però una fascia di popolazione che si trova in una situazione molto critica in cui si stanno rilevando consistenti problemi di salute immediati. In sostanza per una parte della nostra società la crisi non produrrà conseguenze immediate sulla salute, per un’altra invece saranno immediate perché la crisi non colpisce in modo omogeneo e scarica gran parte dei costi e degli effetti su una certa fetta della popolazione che già in precedenza aveva meno beneficiato dello sviluppo economico. Qui si lega un’obbiettivo ben presente a chi opera sul sistema sanitario dal punto di vista popolare e cioè la necessità di evitare quanto più possibile danni o morti dove sia possibile.
Non sono certamente nuove le indagini che documentano con solide evidenze come situazioni socio-economiche svantaggiate favoriscono disturbi mentali, cardiovascolari fino all’aumento del numero dei suicidi. Improvvise contrazioni di reddito causano cambiamenti significativi negli stili di vita con maggior propensione verso il rischio (alimentazione di scarsa qualità, maggiore assunzione di bevande alcooliche e sostanze stupefacenti ecc.): in sostanza la crisi peggiora la capacità individuale a tutelare la propria salute. Questi effetti non possono essere solamente lasciati al gioco economico, ma necessitano che il sistema sanitario venga attrezzato per queste nuove esigenze, anche per tentare di mitigare questi effetti. Che fare quindi?
Assistiamo in questa campagna elettorale sia da destra – che ha governato finora- sia dal centrosinistra la volontà di porre mano ad una profonda riorganizzazione del sistema sanitario. Ad oggi, in verità, non se ne comprendono le linee di sviluppo se non una generica volontà riorganizzativa con la speranza che una razionalizzazione possa portare ad un sistema sanitario che sappia meglio rispondere alla domanda di salute. Tutto ciò sembrerebbe avere un logica, ma sicuramente non solo non è sufficiente, ma può portare ad un rovesciamento di ciò che crediamo necessario: il bilancio non può essere un fine, ma al limite un vincolo rispetto al quale costruire le giuste risposte. E le giuste risposte, a mio modesto avviso devono svilupparsi tenendo conto che oggi è necessaria una “medicina per i tempi di crisi” che possegga delle linee strategiche precise, come già segnalava Giovanni Fattore nel suo “crisi economica, salute e sistema sanitario”.
Innanzitutto bisogna capire come è fatta la domanda di salute e come cambia nelle diverse situazioni socio-economiche. Con uno sforzo davvero modesto devono essere resi leggibili e resi immediatamente disponibili i flussi di informazioni riguardo ai fenomeni su cui la crisi esercita effetti rilevanti. Sicuramente il monitoraggio della salute e della domanda di servizi, ma soprattutto porre particolare attenzione a patologie strettamente legate a situazioni di povertà – come ad es. quelle legate all’alimentazione o alle condizioni abitative -. Necessario sarebbe quindi creare attenzione a tutti quegli eventi sentinella facilmente ottenibile dalla rete già esistente di medici di medicina generale ecc.
Bisogna quindi porre particolare attenzione nell’organizzare la risposta sanitaria a tutti quei servizi “sensibili” la cui maggior richiesta potrebbe creare delle “strettorie” che colpiscano in mnaiera privilegiata chi chiede aiuto nel momento di crisi. La crisi infatti non colpisce, come già detto, in modo omogeneo, ma può determinare dei “picchi” o differenze di richiesta in aree diverse.
Qui si lega la diminuita capacità di fruibilità e accesso ai servizi al momento non coperti in maniera sufficiente dal Sistema Sanitario. Questi servizi esistono e basterebbe citare settori quali le cure odontoiatriche, riabilitative, oculistiche o rivolte al disagio psichico dove la spesa privata delle famiglie è forte e che rappresentano comunque aree di servizio essenziale. Necessario quindi monitorare il flusso di domanda che riguarda il settore privato il quale non copre solo prestazioni secondarie, ma appunto essenziali. Questa stretta osservazione può consentire iniziative mirate tempestive e permettere la dismissione di altre aree non necessarie ma al momento coperte dal Sistema Sanitario.
La sanità è un sistema cosiddetto labour intensive che appartiene ad una fascia di attività che moltiplica i propri effetti positivi sul sistema economico nazionale ma sopratutto locale. La crisi può essere un’opportunità per interventi in grado di migliorare i livelli di efficienza, ma questi interventi devono mirare ad aumentare i livelli di attività date le risorse, piuttosto che ridurre le risorse a parità di livelli di attività.
In sostanza esiste davvero una sanità dei tempi di crisi e attrezzare il nostro sistema di cure per alleviare l’impatto dell’impoverimento della popolazione resta il punto fermo della nostra politica sanitaria. Che, appunto, vuole determinarsi come popolare.
I cambiamenti climatici stanno incidendo sulla nostra salute. Sono ormai numerosi e ampiamente diffusi molti documenti a cura delle più prestigiose organizzazioni europee e mondiali in grado di fornirci informazioni attuali con interessanti tracce riguardanti i sistemi sanitari europei sulle modalità di intervento. Il quadro è noto: i cambiamenti sembrano caratterizzarsi per un aumento della frequenza di ondate di calore, alluvioni e siccità di diverso tipo nel nord e sud Europa. Per ciò che riguarda il nostro “cortile”, l’europa centrale e meridionale, si assiste ad un aumento delle temperature estive superiori alla media, una diminuzione delle precipitazioni annuali con periodi di siccità anche estremi. Le popolazioni maggiormente esposte saranno quelle delle grandi città, più esposte all’inquinamento e quelle che vivono nelle fasce ad alto rischio idro-geologico. In qualunque Paese si trovino, le categorie maggiormente a rischio rimangono i poveri, gli anziani, i malati e i giovani. I pericoli più insidiosi sarebbero rappresentati dagli impatti delle situazioni estreme di ondate di calore ma anche di freddo soprattutto per popolazioni che hanno maggior difficoltà all’approvvigionamento energetico, l’insieme di malattie legate al cibo, la variazione di distribuzione delle malattie infettive per la colonizzazione di specie patogene provenienti dall’area sub- e tropicale. Non ultime le malattie di pertinenza dell’apparato respiratorio causate dall’aumento dei livelli di ozono a livello del suolo nelle città e il cambiamento nella distribuzione dei pollini.
L’analisi comunque suggerisce la necessità di adattamento dei sistemi sanitari attraverso soprattutto una diversa distribuzione dei servizi ed un’attenta preparazione agli eventi estremi. I professionisti sanitari dovranno essere i primi nella progettazione di interventi innovativi nel campo della prevenzione, individuazione e risposta agli effetti del cambiamento climatico. Un problema da considerare sarà inoltre dato dall’aumento delle spese sanitarie delle famiglie che dovranno quindi essere considerate per non lasciare “alla prova dei mezzi” coloro che non possiedono risorse aggiuntive per far fronte a tali rischi. La sicurezza sanitaria risulta quindi un perno centrale ineliminabile con la necessità di coinvolgimento da parte di altri settori, ad esempio anche con il rafforzamento dello sviluppo di sistemi di indagine e di comunicazione. Fondamentali risultano anche il potenziamento della forza lavoro del settore sanitario e la necessità di rendere ecosostenibile ogni servizio sanitario.
Queste minime annotazioni ci indicano come le risposte a questi problemi non possono che arrivare da un sistema sanitario pubblico, democraticamente costruito, equo, solidale e considerato come un bene comune. Certamente non da un sistema privato, parassita e affamato di risorse pubbliche senza le quali non potrebbe sopravvivere. Altro che libero mercato della salute!
Certamente, in nessuna nostra affermazione potrà mai ritrovarsi la tentazione di trascurare la ricerca di un continuo miglioramento degli strumenti medici ad ogni livello, ma sicuramente facciamo nostro anche lo stimolo costante nel ricercare, anche al di fuori della “speranza tecnologica”, un sostanziale miglioramento delle opportunità di salute.
Allo stato attuale, però, continuiamo a registrare come il dibattito in corso sulle politiche tese al miglioramento dello stato di benessere, sia sempre e solo imperniato sulla capacità di disporre di tecnologie sofisticate e sulla necessità di reperire finanziamenti destinati perlopiù ad accrescere l’armamentario tecnologico. Con il risultato di centrare l’attenzione di operatori, manager e cittadini su tale dimensione tecnologica come la sola in grado di poter elevare, migliorare magicamente il livello di qualità dei servizi sanitari e in definitiva dello stato di salute generale.
L’idea di puntare sulla tecnologizzazione esasperata, accrescendo la fiducia della popolazione verso terapie ad alto contenuto “ingegneristico” come strategia superiore rispetto alla ricerca costante sull’individuazione e eliminazione dei determinanti negativi della salute, non è scevra da interessi economici oltre alla dimostrazione di come, tali sviluppi tecnologici, siano maggiormente accessibili a determinate classi sociali. Non è nuova la dimostrazione di come la quota delle risorse investite in ricerca nel campo sanitario dipenda, in larga misura, dai meccanismi che verranno usati in futuro per finanziare la fornitura di prestazioni quando i risultati della ricerca verranno commercializzati. Ed ancora è chiaramente dimostrato un nesso assai stretto tra l’espansione dell’assicurazione sanitaria e lo sviluppo di tecnologie specializzate sempre più costose, che mutano la forma e l’estensione della copertura assicurativa stessa e risultano influenzate dagli incentivi che operano sempre attraverso il sistema assicurativo.
Questa rincorsa focalizzata sui limiti tecnici della capacità di cura e la distorta percezione della malattia come fatto personale, individuale, può portare all’indebolimento e irregimentazione della ricerca bio-medica, all’abbandono dell’impegno verso politiche di promozione a favore della salute delle classi più svantaggiate rendendo vana la grande conquista culturale del nesso tra causa ed effetti tra diseguaglianza e aspettativa di vita. Inoltre disarticola la necessaria azione coordinata tra chi opera nella salute, nell’educazione, nel lavoro, nelle politiche ambientali.
“Siamo qui per noi ma non per noi, tanti ma per i ben più tanti che attendono da noi non solo un messaggio responsabile ma anche un’azione efficace per la salute e l’integrità di chi è oggetto di sfruttamento, emarginazione, repressione onde questi ne emerga con tutto il suo diritto e la sua capacità di porsi quale soggetto politico primario” (Giulio Maccacaro)
Abbiamo una convinzione inamovibile: le diseguaglianze di salute non rappresentano una condanna inappellabile, ma una caratteristica della nostra società che può essere modificata. Al di là di motivazioni etiche ricomprese nell’idea di giustizia sociale, risulta praticabile e possibile, in altre parole, un margine d’azione immediatamente percorribile che ci permetterebbe di attingere a un serbatoio di salute alla portata del nostro impegno. Condizione inevitabile è però la necessità di raccogliere la sfida di un coraggioso e quasi eretico rinnovamento delle nostre concezioni e criteri di lettura che reimpostino le false opinioni correnti sulla prevenzione, cura, organizzazione del lavoro e, in ultimo, della società derivate dalla pubblicistica più di moda, di cui l’onda privatistica non ne è che l’ultimo esempio.
Esiste, però, un problema essenziale che ostacola l’acquisizione di questa di ricerca al rango di priorità nell’agenda politica sanitaria: impegnarsi nell’analisi delle diseguaglianze nella salute conduce a un vero e proprio salto di qualità non solo verso il cambiamento per una nuova salute possibile, ma soprattutto rende coscienti sulla necessità di incidere nei diversi aspetti organizzativi del nostro quadro sociale. La conferma emerge dal costante richiamo sull’azione di fattori in gran parte esterni al mondo sanitario: il ruolo fondamentale dell’istruzione, le condizioni lavorative, lo Stato e le politiche abitative, le storie di migrazioni interne ed esterne al nostro paese, sono solo le più immediatamente individuabili.
La malattia stessa sembra rappresentare un momento finale, negativamente unificante di tutti questi aspetti. Cambia però l’angolazione, il punto di vista: lo stato di infermità non rappresenta più un evento casuale, accidentale, che può colpire senza apparente motivo ciascuno di noi, ma è rintracciabile in una storia per diversi aspetti quasi determinata, inserita in un contesto coerente dove è rinvenibile un filo conduttore. Interi gruppi di persone sembrano accomunati, nel bene nel male, in uno stesso destino di salute perché provengono da famiglie con livelli di istruzionr omogenei, appartengono allo stesso segmento sociale, hanno stili di vita e risorse simili.
La scelta di proporre questo argomento al centro della nostra azione politica possiede inoltre un altro motivo di interesse: pone in contraddizione le argomentazioni politiche correnti, ne coglie le profonde mistificazioni, i falsi assiomi che hanno relegato il discorso su salute, prevenzione cura a semplice computo economico, in un vicolo cieco che appare senza possibilità di risoluzione se non mediante il reperimento crescente di risorse. Svela inoltre la falsa pretesa di una scienza economica applicata alla sanità che si vorrebbe priva di ogni giudizio di valore, il cui unico fine sarebbe rivolto verso i soli problemi dell’efficienza, ergendosi a giudice della possibilità concreta, fattibilità, di interventi invece caratterizzati dall’efficacia e dall’equità reclamati da altri attori sociali, come quello medico e più in generale delle persone che formano la nostra comunità.
Questo è il nostro impegno per una riforma della sanità: più possediamo conoscenze sulle cause delle diseguaglianze, più ci avviciniamo alle radici dei meccanismi che possono condurci a una società sana, maggiori saranno le nostre capacità di scoprire e proporre approcci diversi ed efficacemente innovativi nel metodo e nella sostanza per nuove soluzioni politiche.