Alain Tourain, il sociologo che ha coniato il termine di “società postindustriale” ha appena pubblicato in Italia, per i tipi del Saggiatore, l’interessante: “La globalizzazione e la fine del sociale”.
Le sue tesi credo siano molto stimolanti, soprattutto per la lettura della realtà odierna e si inseriscono nella difficoltà e nello smarrimento, a livello di Sinistra politica, nel saper leggere la nostra società.
Si potranno condividere a meno le tesi esposte, ma sicuramente non si potranno ignorare.
Estrapolo, qui, un passaggio critico, nella speranza che possa stimolare la lettura di questo testo molto lucido e capace di sondare senza cedimenti la realtà sociale per quella che è, oggi.



“Abbiamo a lungo cercato il senso della nostra vita in un ordine dell’universo o in un destino divino, in una città ideale o in una società di eguali, in un progresso senza fine o in una trasparenza assoluta. Ma questi tentativi (tuttora in atto) si sono esauriti perché quei mondi ideali ci sono sembrati sempre più lontani, se non addirittura immaginari, via via che aumentava la nostra capacità di agire, e quindi di produrre cambiamenti, mentre il ricorso ad un fine supremo paralizzava il presente. Tutti i cieli si sono allora svuotati; i loro dèi sono stati sostituiti da guardiani del tempio, dittatori, agenti della  polizia segreta e perfino, in qualche angolo nascosto, da pubblicitari. Il trionfo di questi nuovi poteri ci ha spinto a rientrare sempre più in noi stessi, a scoprirci nella nostra realtà più concreta: prima di cittadini, poi di lavoratori per liberarci del potere della “borghesia”, e ora di esseri cultural per resistere alla commercializzazione di tutti gli aspetti dell’esistenza, esseri dotati di “genere” e di sessualità che si sono immersi nella parte più profonda di se stessi per sfuggire alle ideologie della terra, del popolo, delle comunità.
Più la vita dipendeva da noi stessi, più prendevamo coscienza di tutti gli aspetti della nostra esperienza. E ogni volta che,in quanto attori sociali, eravamo costretti ad arretrare, ci rafforzavamo come soggetti personali. Diventiamo pienamente soggetti solo quando accettiamo come nostro ideali il fatto di riconoscerci – e di farci riconoscere come individui – come esseri individuati capaci di difendere e costruire la nostra singolarità e dare, attraverso i nostri atti di resistenza, un senso alla nostra esistenza.
Questo significa che viviamo in un mondo di soggetti? Crederlo sarebbe assurdo quanto voler vedere nelle società del passato solo santi, eroi o militanti. Ma la nostra epoca non lascia più spazio di altre all’indifferenza o alla completa ambivalenza. Sappiamo che ci sono circostanze nelle quali bisogna scegliere, in cui bisogna riconoscersi o rinnegarsi come soggetti. Siamo attratti, diretti, manipolati dalle forze che dominano la società più ancora che dalle èlite dirigenti della società stessa. Cerchiamo inoltre di far uso il meno possibile della nostra libertà di soggetti, perché il prezzo è alto. Ma oggi, come in qualsiasi altra cultura del passato, non esiste figura del soggetto senza sacrificio e senza gioia.
(…) Oggi è impossibile non riconoscere la presenza del soggetto mentre si moltiplicano le lotte e le critiche non solo contro gli imperialismi, i nazionalismi e i populismi, ma anche contro il regno del denaro e la crescita delle disuguaglianze. E’ impossibile non parlare di diritti umani, non riconoscere che sono sempre più numerosi gli esseri umani che valutano i loro atti e la loro situazione in termini di capacità di creare se stessi e di vivere come esseri liberi e responsabili. Sono coloro che vedono ovunque soltanto vittime e macchine di dominio e di morte a essere ciechi, perché non scorgono l’affermarsi, accanto all’ingiustizia e alla morte, della volontà di lottare contro di esse; e ignorano i successi ottenuti con queste lotte. Gli dèi non hanno lasciato solo il posto a guerrieri e giuristi. Abbiamo sempre bisogno di un doppio di noi stessi:questo doppio a farci conseguire dei diritti, e di conseguenza a dotarci di senso morale, il senso del bene e del male. Questo doppio, a forza di avvicinarsi a noi, di essere sempre meno oggettivato in un mondo superiore e lontano, penetra in ogni individuo. È allora che diventiamo capaci di agire in nome di principi superiori, e di punirci perla nostra incapacità di raggiungerli.
(…) Oggi la nostra morale è sempre meno sociale ed sempre più diffidente nei confronti delle leggi della società, dei discorsi del potere, dei pregiudizi tramite i quali ogni gruppo protegge la propria superiorità o la propria differenza. Ciò che ognuno di noi cerca,in mezzo agli eventi in cui si trova immerso, è la possibilità di costruire la propria vita individuale, con la sua specifica differenza rispetto a tutele altre e la sua capacità di dare un senso generale a ogni evento particolare.
Questa ricerca non coincide con la ricerca di una identità, perché siamo sempre più composti da frammenti di identità diverse. Può dunque configurarsi solo come lotta per conquistarsi il diritto ad essere l’autore, il soggetto della propria esistenza e appropriarsi della capacità di resistere a tutto ciò che ci priva di questo diritto e rende la nostra vita incoerente. Questa immagine dell’individuo si presenta a noi sempre più spesso come l’immagine di un essere umano che si afferma come essere dotato di diritti: il diritto, innanzitutto, di essere un individuo,ovvero non l’Uomo al di sopra di tutti gli attributi, ma l’essere umano dotato di diritti civili e sociali, diritti di cittadino  e di lavoratore, nonché, oggi (soprattutto), di diritti culturali: scegliere la propria lingua, le proprie credenze, il proprio stile di vita, ma anche la propria sessualità, che non si riduce a un genere costruito dalle istituzioni dominanti”
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