La discussione a sinistra sembra percorrere, quasi esclusivamente, il sentiero delle forme organizzative, di aggregazioni e disaggregazioni nuove, con un pesante silenzio sugli argomenti che dovrebbero indicare le nuove strade per la sinistra.
Devo dire che, procedendo nei giorni, questa discussione interessa sempre meno le persone.
Le parole continuano ad essere pesantemente “vecchie” ed in buona parte incomprensibili.
Seppur difficoltoso, inoltrarsi in nuovi territori è la sola salvezza, ben consci del fatto che ancora molte incrostazioni ci rimarranno addosso.
Bisogna però iniziare a chiarire alcune piccole cose che la realtà ci pone davanti.
Bisogna iniziare a leggere diversamente la realtà.
Così ad esempio capire se l’inclusione e l’esclusione sociale non hanno più luogo solamente nelle tradizionali categorie di classi sociali, gruppi etnici e locazione geografica, ma sempre di più rispetto alla possibilità di avere accesso all’informazione.
Perché comunque la nostra società si sta caratterizzando, bene o male, come società dell’informazione.
E quindi capire se il richiamo alla difesa solo di alcune categorie sociali sia ancora verosimile, o se la società è disegnata in maniera tale che queste categorie sociali si sono riorganizzate con un portato di bisogni che non abbiamo compreso.

Chiedersi anche come si debba leggere il mutamento tecnologico, se è ancora corretto contrastarlo con una sorta di rifiuto aprioristico, ascientifico.
Perché forse non è da contrastare lo sviluppo tecnologico qualunque esso sia – accusa che ci viene continuamente rivolta -, ma invece dare gambe all’idea che le nuove frontiere scientifiche e tecnologiche non sono rese possibili solo grazie ad un contesto istituzionale fondato su un mercato spinto e su valori individualistici.
Ma che esistano modelli sociali capaci di assorbire il mutamento tecnologico ed economico e non semplicemente costruiti per contrastarli.
Avendo il coraggio di dire che è possibile un modello nel quale lo sviluppo economico (ottenuto certamente da presenze massicce e qualificate nei settori trainanti) venga coniugato con sistemi di elevata qualità di protezione sociale.
Anche guardando ad esperienze come alcune del nord Europa, tacciate di semplice socialdemocrazia.
Noi manteniamo il dubbio sul fatto che le nuove frontiere tecnologiche possano essere associate solamente ad un singolo modello, quello peraltro predicato dai conservatori.
Noi rigettiamo l’ipotesi semplicistica secondo al quale esista un unico modello sociale capace di assorbire il mutamento tecnologico ed economico.
La nostra tesi dovrebbe prendere in considerazione che la società dell’informazione può esistere, ed esiste già, in una pluralità di modelli sociali e culturali, allo stesso modo in cui la società industriale si è sviluppata seguendo modelli di modernità molto differenti ed addirittura antagonisti (USA, Giappone, Scandinavia).
Come suggerito ad esempio da Castells, le società e le economie possono raggiungere modelli molto simili di informazionalismo tecnico-organizzativo partendo da storie e culture differenti, utilizzando istituzioni e raggiungendo forme distinte di organizzazione sociale.
Non esiste un unico modello di società dell’informazione (tipo california o usa in generale) che possa porsi come standard della modernità per il resto del mondo.

E successivamente rispondere, in maniera chiara e senza debolezze, alla domanda: il Welfare State può porsi come una forza capace di contribuire al pieno sviluppo di questa società che si sta riorganizzando?
La domanda si fa pressante tenendo conto delle evidenti differenze che possono presentarsi a livello sociale.
La tendenza globale dell’economia dell’informazione è di connettere alle sue reti coloro che, secondo i suoi parametri, sono dotati di valore (fornendo loro l’opportunità di aumentare ulteriormente il loro valore), e disconnettere, però, coloro che sono giudicati essere carenti di valore (finendo con il ridurre ulteriormente le loro opportunità di acquisire valore).
Questo processo ha come conseguenza una crescente ingiustizia sociale che si manifesta come povertà, disuguaglianza sociale e polarizzazione dei redditi.
Ma è sempre così?
Bisogna comunque rifiutare ogni tipo di innovazione, oppure è possibile dare risposte diverse anche in presenza di questo tipo di sviluppo che ormai sembra una tempesta difficile da contrastare?
Perché il voto della nostra gente si trasforma in voto identitario-leghista?
Non è una risposta diversa alla stessa domanda che ci ponevamo noi prima?
La sensazione è che il crescere di questo nuovo tipo di società sta creando diseguaglianze, povertà che vengono incanalate in un nuovo contenitore che si chiama “identità culturale”.
Se sono pur vere tutte le analisi sul razzismo e via discorrendo, assistiamo credo al fatto che la diseguaglianza e la povertà, vengono in realtà costruite nell’immaginario delle persone, come minaccia di un’ organizzazione sociale locale, che senza questa nuova perturbazione sarebbe invece in grado di garantire benessere.
E la resistenza a questo nuovo assetto non passa più attraverso le tensioni sociali delle categorie, le contrapposizioni tra piccola e grande impresa, tra lavoratore e datore di lavoro, ma di un intero territorio geografico.
Nel quale la presunta salvezza sta in una resistenza locale fatta dall’unione di tutte le categorie presenti sul quel territorio contro lo “straniero”.
Ma altre esperienze ci mostrano anche oggi che il dinamismo tecno-economico può combinarsi con il Welfare e anche con le soluzioni culturali tipiche di un territorio.
Il nord Europa, il Giappone e gli USA sono spazzati dalla stessa “distruzione creativa” della società dell’informazione, ma danno risposte diverse tipiche delle proprie identità culturali.
Forse non è il progresso che destabilizza necessariamente l’ordine sociale creando ingiustizia, ma sono le risposte, o meglio le non-risposte che sappiamo mettere in campo che mantengono il danno.

La nostra idea di sinistra continua a pensare che esista uno spazio ampio, un margine considerevole per scelte politiche basate sui valori.
Che è nostro compito smascherare il fatto che non esiste un unico modello di società che permette lo sviluppo economico e tecnologico.
Non che il progresso sia comunque da rifiutare.